20/07/2018
Elena Carnevali
Ubaldo Pagano, Rossi, De Filippo, Ascani, Ciampi, Schirò, Pezzopane, Annibali, Cardinale, De Menech, Zardini, Cenni, Ungaro, Scalfarotto, Rizzo Nervo, Enrico Borghi, Serracchiani
1-00024

La Camera,

   premesso che:

    la discriminazione di genere nello sport è un problema ad oggi ancora troppo presente, nonostante la pratica dell'educazione fisica e dello sport sia riconosciuto come diritto acquisito per tutti e nonostante il principio di uguaglianza sancito all'articolo 3 della Costituzione;

    la Convenzione sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne (Cedaw), adottata a New York il 18 dicembre 1979 dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite e ratificata dall'Italia ai sensi della legge 14 marzo 1985 n. 132, prevede, in particolare agli articoli 10 e 13, che il diritto allo sport sia per tutti, senza distinzioni di genere;

    l'Unione europea è intervenuta più volte per denunciare la disparità di genere nell'accesso e nello svolgimento dell'attività sportiva; nel 2003 ha adottato la risoluzione donne e sport (2002/2280 (INI)) nella quale lo sport femminile è definito come espressione del diritto alla parità e alla libertà di tutte le donne;

    in particolare, il Parlamento europeo con la risoluzione 5 giugno 2003 su «donne e sport» chiedeva agli Stati membri e all'Unione europea di assicurare alle donne e agli uomini pari condizioni di accesso alla pratica sportiva, e alla Commissione di sostenere la promozione dello sport femminile nei programmi e nelle azioni comunitarie, proponendo di inserire nella strategia quadro comunitaria in materia di parità fra donne e uomini 2006-2010 un obiettivo operativo dedicato alla partecipazione delle donne alla pratica sportiva;

    la risoluzione sollecitava, inoltre, gli Stati membri a sopprimere la distinzione fra pratiche maschili e femminili nelle procedure di riconoscimento delle discipline di alto livello e di condizionare la propria autorizzazione e il sovvenzionamento delle associazioni sportive a disposizioni statutarie che garantissero una rappresentanza equilibrata delle donne e degli uomini a tutti i livelli e per tutte le cariche decisionali, mentre alle federazioni nazionali chiedeva di garantire gli stessi diritti in termini di reddito, di condizioni di supporto e di allenamento, di accesso alle competizioni, di protezione sociale e di formazione professionale, nonché di reinserimento sociale attivo al termine delle carriere sportive;

    successivamente con la conferenza dell'Unione europea sulla parità di genere nello sport, svoltasi nel 2013, è stata approvata una proposta riguardante le azioni strategiche da porre in atto nel periodo 2014-2020 per promuovere la parità di genere nello sport; riconoscendo che c'è ancora molto da fare, le azioni e le raccomandazioni contenute nella proposta incoraggiano gli organi di governo dello sport e le organizzazioni non governative a elaborare e attuare strategie d'azione nazionali e internazionali per la parità di genere nello sport, con il supporto di misure coerenti e concrete a livello dell'Unione europea;

    sebbene la partecipazione femminile allo sport stia gradualmente aumentando, le donne rimangono sottorappresentate negli organi decisionali delle istituzioni sportive, sia a livello locale e nazionale, sia a livello europeo e mondiale;

    nel nostro Paese persiste una carenza normativa che stride non solo con i principi costituzionali ma anche con le norme di respiro europeo ed internazionale in materia di pari opportunità tra donne e uomini;

    indipendentemente dal loro livello agonistico, dai risultati raggiunti, dalle vittorie e dai record conquistati, le donne sono definite dal nostro ordinamento semplicemente «dilettanti» e non professioniste in base alla legge n. 91 del 1981 recante «Norme in materia di rapporti tra società e sportivi professionisti» che considera la maggior parte delle discipline femminili appunto dilettantistiche;

    il ruolo sociale dello sport nelle politiche europee e nell'ordinamento sportivo italiano deve garantire il diritto alla parità di genere, partendo dagli sport oggi considerati professionistici solo se praticati da uomini. In Italia sono riconosciuti solo sei sport professionistici su sessanta discipline (calcio, golf, pallacanestro, pugilato, motociclismo e ciclismo);

    la prima conseguenza dell'assenza del riconoscimento del professionismo sportivo nelle donne è la mancanza di un contratto di lavoro. In vista di una regolare contrattualizzazione le sportive «professioniste di fatto» non possono essere considerate neppure lavoratrici di tipo subordinato o autonome. Le disparità di fatto tra uomini e donne nello sport creano un serie di conseguenze da non sottovalutare. Le atlete donne, infatti, non percepiscono né il trattamento di fine rapporto, né gli indennizzi per i casi di maternità e sono escluse dalla maggior parte delle forme di tutela presenti nel mondo del lavoro;

    in assenza di un contratto e in presenza di questa condizione che spesso raggiunge la stregua di un lavoro in nero, il 70 per cento delle donne che vivono di sport non raggiunge l'indipendenza economica ed è costretto a chiedere a lungo un sostegno alla famiglia;

    tutto ciò si traduce in una evidente disparità, non solo a livello di trattamento economico fra uomini e donne, ma anche in termini di assenza di tutele sanitarie, assicurative, previdenziali a parità di attività svolta;

    a questo va aggiunto che la presenza delle donne nei ruoli apicali delle federazioni sportive è bassissima: tra le 45 federazioni sportive nazionali, le 19 discipline sportive associate ed i 15 enti di promozione sportiva, non vi è a capo una donna, la presenza nei consigli federali è minima e ad oggi non è mai stata eletta una presidente donna al Comitato olimpico nazionale italiano;

    l'articolo 1, comma 369, della legge n. 205 del 2017 (legge di bilancio per il 2018), ha istituito presso l'ufficio per lo sport della Presidenza del Consiglio dei ministri il fondo unico a sostegno del potenziamento del movimento sportivo italiano, con una dotazione pari a euro 12 milioni per il 2018, euro 7 milioni per il 2019, euro 8,2 milioni per il 2020 ed euro 10,5 milioni a decorrere dal 2021. Le risorse sono destinate, tra le altre cose, alla realizzazione di eventi sportivi femminili e alla maternità delle atlete non professioniste. Uno strumento in più per le atlete italiane che, una volta emanati i decreti attuativi che definiranno le modalità di accesso, potranno contare su un'indennità che copra i mancati introiti dell'attività sportiva;

    spetta allo Stato la tutela delle pari opportunità nella pratica sportiva, il riconoscimento della parità di valore allo sport praticato dai due sessi e la promozione di azioni finalizzate al superamento delle diversità e delle difficoltà presenti nello sport femminile,

impegna il Governo:

1) ad assumere ogni iniziativa di competenza in collaborazione con il Coni e le federazioni sportive, affinché la qualificazione del professionismo sportivo includa sempre più discipline sportive femminili;

2) ad assumere iniziative, per quanto di competenza, per garantire a donne e uomini le medesime opportunità di partecipazione ai processi decisionali a tutti i livelli (nazionali ed internazionali) e nell'intero sistema sportivo nonché un'equa rappresentanza nei diversi organismi dirigenziali e nelle posizioni apicali delle organizzazioni sportive e nelle amministrazioni correlate allo sport;

3) a promuovere iniziative e/o campagne di sensibilizzazione rivolte all'opinione pubblica per favorire la diffusione e la conoscenza del valore sociale, economico e culturale dello sport praticato dalle donne;

4) a promuovere la modifica e il superamento della legge 23 marzo 1981, n. 91, in materia di promozione della parità tra i sessi nello sport professionistico.