22/07/2014
Colomba Mongiello
Sani, Oliverio, Realacci, Ventricelli, Anzaldi, Giovanna Sanna, Mura, Romanini, Piccione, Zardini, Venittelli, Porta, Martelli, Iacono, Lodolini, Manfredi, Mazzoli, Terrosi, Miotto, Famiglietti, Giulietti, Marco Di Maio, Covello, Cimbro, D'Ottavio, Cominelli, D'Incecco, Antezza, Arlotti, Blazina, Capone, Folino, Cenni, Amoddio, Vezzali, Vazio, Fucci, Sannicandro
1-00556

La Camera, 
premesso che: 
l'olio extravergine di oliva è l'unico olio vegetale direttamente commestibile, quindi dotato di complessi di gusto ed aroma che ne determinano i crescenti consumi mondiali. La produzione mondiale è in aumento e stabilizzata dal 2010 su oltre 3.000.000 tonnellate/anno. È una «commodity» di alto valore, che con meno del 4 per cento della produzione di oli vegetali movimenta il 20 per cento del mercato; 
l'Italia storicamente aveva una posizione di rilievo per le caratteristiche qualitative del prodotto e per la importanza quantitativa delle produzioni in un mondo che vedeva l'olivo come pianta colonizzatrice e l'olio come produzione povera, talora malfatta e maleodorante, da inviare a raffinerie italiane che lo trasformavano in oli di oliva commestibili. Oggi la realtà mette in evidenza che in tutti i Paesi olivicoli e non olivicoli le piantagioni di olivo sono diventate piantagioni da reddito, e la nuova olivicoltura mondiale, che arriva appunto a 3.000.000 di tonnellate, è ottenuta con nuove e moderne piantagioni, altamente produttive, competitive, con produzioni di qualità crescente, in grado di competere sui mercati allo stesso livello delle qualità italiane, con la differenza che l'Italia con le sue produzioni decrescenti attualmente non è in grado di imporsi in nessun tipo di mercato; nel 2013/2014 la produzione italiana, probabilmente inferiore alle 400.000 tonnellate da stime ancora da verificare, rappresenta solo il 13 per cento della produzione mondiale; 
come ben risulta dal testo e dagli allegati del piano olivicolo-oleario 2009/2013 predisposto dal Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, ad oggi ormai superato, il comparto produttivo risulta compromesso. Il comparto olivicolo può contare solamente su circa un milione di aziende, di cui gran parte in zone collinari e deve fare i conti con coltivazioni di proprietà che gestiscono 100 o 250 piante di olivo come patrimonio aziendale, con l'età stessa delle piantagioni che, ad esempio, in alcune zone di Italia supera i 300-500 anni, con l'estrema frammentazione varietale, con un innumerevoli cultivar delle quali non si conoscono né il comportamento agronomico né le caratteristiche dell'olio. Sono queste solo le più evidenti criticità dell'olivicoltura attuale dell'Italia che danno appena un'idea delle difficoltà del comparto, ove il ricambio generazionale ha ormai fatto venir meno i tradizionali agricoltori; 
questa situazione comporta anche riflessi pesantemente negativi sulle tecniche di conduzione, approssimative e mirate al massimo risparmio fino a nessun intervento, riportando la coltivazione dell'olivo ad una coltura di sussistenza ed in certi casi senza tener conto della conservazione dell'ambiente; 
ciò d'altro canto provoca anche difficoltà insormontabili per la produzione di olio di qualità, visto che la maggior parte degli agricoltori raccoglie le drupe quando può, frange quando può e come può, mentre la mancanza di disponibilità economico-finanziarie limita anche i più essenziali interventi di fertilizzazione e di difesa; 
da una rapida valutazione dei dati statistici è facile ricavare questo degrado progressivo della struttura, poiché praticamente si è passati da oltre 800.000 tonnellate di olio nel 2004 a meno di 400.000  tonnellate (probabili) nella presente campagna; 
l'ultima campagna ha messo drammaticamente alla luce i difetti, le manchevolezze e le necessità delle strutture produttive; una previsione di produzione già nettamente inferiore alle attese, mostrava già le tendenze al decremento del comparto. Un forte attacco di mosca olearia, lasciato incontrollato per mancanza di mezzi economici per effettuare i necessari trattamenti e l'abbandono di frutti sulla pianta determinato dal loro basso valore, hanno certamente abbassato i limiti della produzione, potendo essa arrivare a meno di 400.000 tonnellate in un momento in cui il valore dell'olio stava risalendo verso limiti di convenienza economica e malgrado nel Mediterraneo si annunciassero produzioni da record; 
il paradosso di questa situazione è che questo aumento del valore dell'olio andrà a favore dei principali competitori italiani; infatti, il consumo di olio di oliva in Italia è assestato intorno alle 600.000 tonnellate, quindi sono necessarie 200.000 tonnellate di buon olio (rivalutato) solo per soddisfare il fabbisogno nazionale, alle quali si dovranno aggiungere almeno altre 200.000 tonnellate per poter continuare ad alimentare le esportazioni. Attualmente l'Italia produce circa la metà dell'olio rispetto ai propri fabbisogni; 
per valutare attentamente le possibilità e gli indirizzi di sviluppo del comparto olivicolo, occorre verificare il mercato generale, il comportamento e le produzioni dei principali Paesi olivicoli e le spinte allo sviluppo del comparto olivicolo-oleario a livello globale. Nell'orizzonte europeo, compare gigantesca la montagna produttiva spagnola che ancora una volta supera 1.500.000  tonnellate (circa il 50 per cento della produzione mondiale), con produzioni provenienti da piantagioni nuove, irrigue specializzate, integralmente meccanizzabili ed inserite in una filiera già in corso di adeguamento alle caratteristiche qualitative che il mercato richiede; gli agricoltori spagnoli hanno rinnovato le piantagioni, riorganizzato le filiere, acquistato marchi di prestigio anche italiani ed ora stanno lavorando intensamente sulla qualità intrinseca delle loro maggiori produzioni nazionali. Competere con queste realtà significa competere tecnologicamente; 
sempre nell'ambito europeo, la Grecia si presenta con una olivicoltura solo parzialmente rinnovata, ma con oli di elevata qualità ed a prezzi relativamente bassi. Nell'ambito del Mediterraneo una forte spinta al miglioramento tecnologico nello specifico settore dell'olivicoltura è in atto in Marocco, che tre anni fa ha lanciato il programma «Maroc Vert», che prevede interventi praticamente a fondo perduto per nuove piantagioni, ed in Turchia, ove l'olivo è visto come un investimento produttivo ed il potenziale di esportazione di questo Paese si sta avvicinando alle 100.000 tonnellate/anno. In sottofondo rimangono ancora Paesi come Siria e Tunisia, che insieme possono coprire 400.000 tonnellate (quantità pari all'attuale produzione italiana) di oli a basso costo; 
al di fuori dell'area mediterranea si stanno sviluppando interessanti realtà olivicole, delle quali si deve tener conto, perché, se non influenzano il mercato nazionale, sono delle minacce concrete per le esportazioni. Negli Stati Uniti, in California, sta crescendo un nucleo di olivicoltori che mirano ad impadronirsi del mercato nordamericano, che rappresenta la migliore zona di esportazione degli oli italiani. Questo avviene sia con l'immissione sul mercato di oli di buona qualità prodotti in California, con impianti moderni, ma anche attraverso organi di stampa e dossier ufficiali che evidenziano i difetti del sistema produttivo italiano, praticamente inesistente nel loro immaginario collettivo; 
nell'America del Sud, Cile ed Argentina sono impegnati nella produzione di olio attraverso nuove piantagioni, e l'Argentina ha dichiarato l'olio di oliva «alimento nacional»; attualmente è accreditata di una produzione reale di 30.000 tonnellate, con grandi ambizioni sul mercato nordamericano (Stati Uniti, Canada); 
dall'altra parte del globo, la realtà australiana, ancora modesta, ma tutta costituita da nuove piantagioni, mira ai mercati orientali che rappresentano un potenziale sbocco anche per le produzioni italiane; 
si tratta, in genere, nel resto d'Europa (Portogallo, Spagna, Francia e parzialmente Grecia) e nel resto del mondo (Marocco, Turchia, Sudamerica, Australia) di olivicolture da reddito ove l'unica finalità dell'impianto è produzione di oli di oliva ottenuti con tecnologie moderne di raccolta, trasformazione, e ben organizzate, in grado di dare tutte oli di eccellente qualità sotto il profilo di genuinità e purezza, e di caratteristiche organolettiche talora diverse, ma non necessariamente inferiori a quelle del prodotto nazionale; 
per fermare l'abbandono ed il «disamoramento» dell'olivicoltura come fatto produttivo che trascinerebbe inesorabilmente nella caduta anche alcune delle linee commerciali più rilevanti del «made in Italy» come gli oli di alta qualità, occorre prendere atto che la struttura deve essere modificata; questo non sarà fatto certamente in un arco di tempo breve, e senza un adeguato intenso lavoro di programmazione; si dovrebbe iniziare innanzitutto a ricostruire lo scheletro di una struttura produttiva efficiente attraverso nuove piantagioni che siano nel giro di pochi anni in grado di sopperire almeno ai fabbisogni nazionali e mantenere l'immagine di un mondo olivicolo dinamico e produttivo in grado di sostenere un'esportazione di qualità, e ridare al Paese un settore capace di dare occupazione e recuperare quelle forze lavoro che derivano dall'abbandono progressivo dell'olivicoltura tradizionale; 
queste nuove piantagioni dovrebbero possedere tutti i requisiti per lo sviluppo e l'applicazione di tutte le moderne tecnologie; 
in numerosi distretti rurali esistono ampie zone a vocazione olivicola-agricola, ove si potrebbe operare con queste nuove piantagioni, che assumerebbero un importate ruolo nella evoluzione del paesaggio analogamente a quanto avvenuto per i vigneti, che negli ultimi trent'anni sono stati totalmente sostituiti dalle nuove piantagioni adatte alle mutate esigenze agronomiche e tecnologiche, e con evidenti vantaggi paesaggistici ed ambientali; 
per dare un'idea dell'immensità delle operazioni e della urgenza di iniziare le attività si portano ad esempio alcuni numeri: supponendo di dover soddisfare un fabbisogno di 200.000 tonnellate/anno di olio di oliva si dovrebbero portare a regime 150.000/200.000 ettari di nuovi oliveti che con una media di 1 tonnellata/ettaro di olio potrebbero riuscire a colmare il fabbisogno; 
è evidente che un processo di questa portata richiede un arco di tempo lungo ed accurate calibrazioni dei processi a monte ed a valle delle piantagioni; è tuttavia necessario sempre ricordare che l'impianto di un oliveto determinerà una produzione 3-5 anni dopo, e che occorre aspettare comunque 8-10 anni per arrivare ad una produzione stabilizzate; 
è quindi necessario avviare immediatamente il processo nelle zone e con gli agricoltori che sono interessati; 
a tale scopo occorrerebbe un sistema di strumenti incentivanti che da un lato sia in grado di permettere agli investimenti di poter essere gestiti agevolmente riducendo l'effetto delle numerose norme ed autorizzazioni necessarie per la costituzione di nuove piantagioni, che dovrebbero essere realizzate solo sulla base di rigorosi criteri tecnico-scientifici, e dall'altro di permettere di costituire una linea specifica di finanziamenti, se del caso tramite un fondo di incentivazione, individuando nel modo più opportuno la fonte delle risorse necessarie e che potrebbe per esempio essere previsto a livello regionale a carico degli attuali contributi di cui ai piani di sviluppo rurale o delle organizzazioni comuni di mercato, da utilizzare per la costituzione di nuove piantagioni di olivo analogamente a quanto si sta facendo nel settore della viticoltura; 
un'operazione di questo tipo non sarebbe finalizzata alla sola produzione olivicola, ma contribuirebbe a movimentare attività e quindi capitali in un indotto che va dall'attività vivaistica alle macchine agricole all'impiego di forze lavoro direttamente nelle piantagioni e indirettamente nelle attività indotte, e a creare linee produttive che già direttamente possono essere pilotate verso prodotti di alta gamma e di qualità certificate; 
va evidenziato che una situazione problematica come quella attuale che sta attraversando l'olivicoltura, l'Italia l'ha già attraversata e in parte superata, alla fine degli anni Novanta nel settore dell'agrumicoltura; 
per fare fronte alla grave crisi di mercato che tra la fine degli anni Novanta ed i primi anni del Duemila aveva il comparto agrumicolo, il 2 dicembre 1998 fu approvata una specifica legge per farvi fronte, ossia la legge n. 423 del 1998 recante «Interventi strutturali e urgenti nel settore agricolo, agrumicolo e zootecnico», la quale all'articolo 1, demandava al Ministro delle politiche agricole e forestali (d'intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano e acquisito il parere delle competenti Commissioni della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica) la predisposizione di «linee programmatiche di indirizzo e di intervento per l'agrumicoltura italiana», da sottoporre all'approvazione del Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE), autorizzando una spesa di 70 miliardi di lire nel 1998 e 20 miliardi di lire per ciascuno degli anni 1999 e 2000 (articolo 3, comma 5); 
con la proposta del Ministro delle politiche agricole e forestali n. 55086 del 14 ottobre 1999 vennero indicate le linee programmatiche di indirizzo e di intervento per l'agrumicoltura italiana, con una previsione di spesa complessiva pari a 110 miliardi di lire (56,8 milioni di euro). Il nuovo piano nazionale di settore, noto come piano agrumi, fu approvato con deliberazione CIPE n. 191 del 5 novembre 1999; 
il piano era costituito da 5 misure orizzontali (monitoraggio dei mercati, schedario agrumicolo, ricerca e sviluppo, comunicazione e promozione, creazione e potenziamento dei consorzi prodotti DOP/IGP) e da 2 misure specifiche (sostegno ai piani integrati di intervento delle O.P., assistenza tecnica e monitoraggio); 
in tale contesto, la rappresentanza permanente d'Italia presso l'Unione europea notificò alla Commissione il programma di intervento in oggetto (aiuto di Stato N 560/99) in conformità con l'articolo 88, comma 3, del Trattato CE (lettera del 9 settembre 1999); 
per fare fronte alle richieste della Commissione europea, l'Italia si impegnò, nell'attuazione delle misure del «piano agrumi», a: 
a) rispettare le procedure previste dalla direttiva 92/50/CE sugli appalti di servizi e le procedure di selezione trasparenti e non discriminatorie, nel caso in cui le misure fossero attuate mediante intermediari; 
b) garantire la conformità delle misure previste con tutti i requisiti di cui al punto 14 (prestazioni di assistenza tecnica nel settore agricolo) dei nuovi orientamenti comunitari per gli aiuti di Stato nel settore agricolo (GU C 28 del 1o febbraio 2000); 
c) rispettare la disciplina comunitaria per gli aiuti di Stato alla ricerca e sviluppo (GU C 45 del 17 febbraio 1996; comunicazione 98/C 48/02); 
d) rispettare i requisiti previsti sia dalla comunicazione della Commissione relativa alla partecipazione dello Stato ad azioni di promozione dei prodotti agricoli e dei prodotti della pesca (GU C 272 del 28 ottobre 1986, pagina 3) sia dalla regolamentazione [della Commissione] degli aiuti nazionali a favore della pubblicità dei prodotti agricoli e di taluni prodotti non compresi nell'allegato II del trattato CEE, esclusi i prodotti della pesca» (GU C 302 del 12 novembre 1987, pagina 6) riguardo alla promozione di prodotti agricoli attraverso i mass media; 
in seguito ai chiarimenti suddetti, forniti dalle autorità italiane, la Commissione europea, con lettera del 16 maggio 2000 [SG (2000) D/103679], decise di non sollevare obiezioni in merito alle misure del piano agrumi, tranne che per la misura specifica relativa al «Sostegno e cofinanziamento a Piani integrati di intervento per la valorizzazione commerciale e il rafforzamento delle strutture organizzative dei produttori»; 
la Commissione, infatti, sostenne che l'entità dello stanziamento previsto per la misura specifica in oggetto (60,2 miliardi di lire) richiedeva informazioni più precise riguardo all'attuazione degli interventi in essa previsti; 
la misura riguardante il «Sostegno e cofinanziamento a Piani integrati di intervento per la valorizzazione commerciale e il rafforzamento delle strutture organizzative dei produttori» si poneva l'obiettivo di aumentare la capacità di concentrazione dell'offerta da parte delle organizzazioni economiche dei produttori, la capacità di programmazione, commercializzazione e di valorizzazione della produzione; 
il piano integrato di intervento, che rappresentava il documento di programmazione strategica e operativa delle organizzazioni dei produttori, conteneva elementi relativi agli sbocchi commerciali e agli accordi di filiera e si componeva delle seguenti parti: 
piano di commercializzazione; 
piano di riassetto produttivo; 
piano di riorganizzazione e ammodernamento delle strutture; 
piano della logistica; 
piano dei servizi e della comunicazione; 
piano per la responsabilizzazione, la partecipazione della base produttiva e delle risorse umane; 
piano per la capitalizzazione (finalizzava gli interventi finanziari a consolidare o incrementare la base patrimoniale delle aziende, a riequilibrare l'assetto finanziario dei beneficiari, a valorizzare il patrimonio di strutture impiantistiche e altro); 
per la selezione dei piani integrati di intervento era previsto un bando di gara nazionale per il quale furono definiti specifici criteri di selezione; 
vi era poi una terza misura, la misura per l’«Assistenza tecnica ed il monitoraggio», la quale, nella lettera della Commissione del 16 maggio 2000, era descritta come segue: «Riguarda il finanziamento di assistenza tecnica e monitoraggio delle misure previste dal piano notificato, in particolare di quelle specifiche destinate alle Organizzazioni di produttori (...)»; 
il beneficiario del finanziamento era identificato nel Ministero delle politiche agricole. Il Ministero delle politiche agricole avrebbe attuato le misure attraverso i suoi enti strumentali ISMEA (Istituto per studi, ricerche e informazioni sul mercato agricolo) e INEA; 
i progetti di triennali, massima delle misure del piano agrumi, presentati dagli organismi attuatori individuati dal Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, furono approvati con specifici decreti ministeriali; 
successivamente, il Ministero delle politiche agricole e forestali decise, anche a seguito dei rilievi posti dalla Commissione, di provvedere alla rimodulazione della misura riguardante il «Sostegno e cofinanziamento a Piani integrati di intervento per la valorizzazione commerciale e il rafforzamento delle strutture organizzative dei produttori», notificando tale variazione ai sensi della comunicazione per gli aiuti di Stato (N 313/2001); 
le azioni originariamente previste nell'ambito della misura relativa al «Sostegno e cofinanziamento a Piani integrati di intervento per la valorizzazione commerciale e il rafforzamento delle strutture organizzative dei produttori» furono ricondotte essenzialmente a due piani programmatici: il piano dei servizi alla commercializzazione e comunicazione e il piano di riorganizzazione e ammodernamento delle strutture produttive, per uno stanziamento di 12 miliardi di lire, pari al 20 per cento dello stanziamento precedentemente approvato per la misura in questione; 
l'80 per cento della somma, pari a 48,2 miliardi di lire, venne destinato, invece, alle regioni interessate al piano agrumi (Lazio, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna), per interventi a favore della riconversione varietale (nella proposta di riparto il Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali inserì anche la regione Lazio); 
con lettera del 7 novembre 2001 le autorità italiane comunicarono alla Commissione i sei piani agrumicoli regionali relativi alle sei regioni interessate al piano agrumi, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna. Le autorità italiane, nel 2002, avevano poi specificato alla Commissione che l'aiuto concesso dallo Stato italiano alle regioni suddette attraverso il piano agrumi consisteva in risorse aggiuntive rispetto a quelle previste come contributo nazionale nei POR, già approvati, che prevedevano azioni destinate al riassetto produttivo del comparto agrumicolo (espianti e/o riconversione varietale); 
le risorse del «piano agrumi» a favore delle regioni sarebbero state erogate ai soggetti beneficiari mediante specifiche azioni comprese nei piani agrumicoli regionali che le regioni stesse dovevano predisporre con le modalità previste nei complementi di programma inerenti ai POR (bando pubblico). Bisogna al riguardo ricordare che per poter fruire degli aiuti di Stato messi a disposizione con il «piano agrumi» per interventi di riconversione varietale – in aggiunta alla quota di parte nazionale già stanziata per gli interventi di questo tipo previsti e approvati nei POR delle regioni interessate al piano agrumi – era necessario che le schede fossero conformi con le regole contenute negli orientamenti comunitari per gli aiuti di Stato in agricoltura e con il regolamento (CE) n. 1257/99 sullo sviluppo rurale e che contenessero una serie di informazioni di dettaglio; 
negli anni seguenti, con le leggi finanziarie per il 2000 (legge n. 488 del 1999) e per il 2001 (legge n. 388 del 2000), furono assegnate altre risorse al «piano agrumi», mentre in attuazione dell'articolo 129 della legge 388 del 2000, la legge 289 del 2002 (legge finanziaria 2003) stanziò per l'anno 2003 la somma di 12.911.422 euro alle regioni interessate al piano agrumi, in particolare per realizzare gli interventi di riconversione varietale; 
con decisione, della Commissione del febbraio 2003 [C (2003) 369 fin], le misure specifiche del «piano agrumi» hanno ottenuto un finanziamento complessivo pari a 116,2 miliardi di lire (60.012.290 euro); 
specificatamente, le regioni interessate al «piano agrumi», alle quali con decreto del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali sono state assegnate risorse aggiuntive oltre a quelle previste nei POR per interventi di riconversione varietale a favore dell'agrumicoltura, dovevano predisporre i propri piani agrumicoli sulla base delle linee guida elaborate dall'INEA per conto del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali; 
per quanto riguarda i piani agrumicoli regionali, come sopra citato, con la decisione C (2003) 369 fin del 5 febbraio 2003, la Commissione decise di non sollevare obiezioni in merito al regime di aiuti di Stato N 313/2001. In tal senso l'80 per cento del finanziamento del regime di aiuti a favore dell'agrumicoltura italiana nell'ambito delle misure specifiche del piano agrumi, pari a 92,96 miliardi di lire (48.009.833,33 euro), è stato destinato ad interventi di riconversione varietale nelle regioni Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna. Ciascuna di queste regioni ha provveduto ad elaborare propri specifici piani agrumicoli regionali; 
alla luce di quanto descritto riguardo a quanto è stato effettuato negli anni dal 1999 al 2003 per il rilancio del comparto agrumicolo nazionale, segnatamente per quanto riguarda il rinnovamento varietale degli agrumeti e l'incremento delle superfici agrumetate, parrebbe auspicabile mettere in atto anche per il comparto olivicolo un piano per l'olivicoltura nazionale che ripercorra le analoghe procedure attivate per il piano agrumi, anche al fine di far tesoro delle esperienze maturate al riguardo e soprattutto per evitare possibili profili problematici con la Commissione europea; 
tale piano sarebbe necessario anche per il grande valore ambientale che riveste la coltivazione dell'olivo specialmente per quanto riguarda la protezione che conferisce al suolo e quindi alla riduzione del rischio idrogeologico e per la conservazione del territorio, essendo questa pianta, tra le specie arboree coltivate, quella con minori esigenze in termini fabbisogno idrico e difesa fitosanitaria; 
lo sviluppo dell'olivicoltura avrebbe una propria valenza strategica anche per gli scenari futuri: a livello globale grazie alla diffusione della dieta mediterranea sta iniziando a diffondersi anche nei Paesi non tradizionalmente consumatori una cultura legata all'olio extravergine di oliva ed alle sue proprietà; questo fenomeno relativamente nuovo è rappresentato da manifestazioni, concorsi internazionali, forum e portali dedicati, curati da giornalisti, e food blogger. Tali iniziative non solo mettono in evidenza le migliori produzioni, ma riescono anche con estrema facilità ed ascolto ad evidenziare la scarsa qualità dei prodotti commerciali (Merum, Olive Center UC Davis, truthinoliveoil, jooprize, NYT e altro). In tale prospettiva è concretamente ipotizzabile che in un prossimo futuro sarà sempre più presente questa consapevolezza e mutata sensibilità del consumatore e sarà quindi necessario cogliere tali opportunità per elevare la qualità del prodotto esportato; 
l'Italia possiede un grande patrimonio varietale ancora tutto da valorizzare ed in questo contesto teso a valorizzare la qualità e le specificità, avrebbe quindi un elevato margine competitivo e forti posizioni di vantaggio; 
non è da sottovalutare poi che nello sviluppo dei nuovi impianti della futura olivicoltura nazionale vi  sarebbero forti ricadute in termini occupazionali, soprattutto nel campo agroindustriale ed agroalimentare, con l'utilizzo e l'impiego dei macchinari necessari alle conduzioni agronomiche e raccolta delle olive che ne riducano sensibilmente i costi di gestione e che oggi rappresentano l'eccellenza della industria italiana meccanica del settore, sia in Italia e sia all'estero, nonché con la maggior richiesta di impianti di estrazione e separazione in due fasi dove alcune industrie italiane sono all'avanguardia con brevetti che permettono di non utilizzare acqua e con ottimi risultati per il riutilizzo delle sanse per uso agricolo e la nutrizione animale; 
sarebbe necessario quindi approvare un apposito programma per lo sviluppo dell'olivicoltura nazionale ed in questo senso dotare l'attuale ordinamento nazionale di una norma specifica volta a rafforzare e sostenere lo sviluppo dell'olivicoltura ed avente contenuti analoghi a quelli di cui all'articolo 1, comma 1, della predetta legge n. 423 del 1998; 
tale norma dovrebbe prevedere che, per fare fronte alla grave situazione di declino della coltivazione dell'olivo ed alla crisi di produttività del comparto olivicolo nazionale, il Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, d'intesa con la conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, ed acquisito il parere delle competenti commissioni della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, presenti al Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE) per l'approvazione le linee programmatiche di indirizzo e di intervento per l'olivicoltura italiana anche al fine di contenere i costi di produzione, di riorganizzare la commercializzazione e di migliorare la qualità dei prodotti agricoli, tenendo conto dell'esigenza di risanamento tecnico-colturale e varietale,

impegna il Governo:

ad intraprendere le opportune iniziative, possibilmente anche a carattere d'urgenza, affinché si attui un piano per il rilancio, il rafforzamento e lo sviluppo dell'olivicoltura nazionale (piano olivicolo nazionale), allo scopo seguendo un procedimento operativo, normativo e amministrativo, analogo a quello attuato ai sensi della legge 2 dicembre 1998, n. 423, come meglio indicato in premessa, valutando in tale ambito, la possibilità di individuare ed autorizzare una congrua somma di spesa, se del caso da associare all'istituzione di un fondo di rotazione per gli investimenti, il cui importo sia non inferiore a 90 milioni di euro da ripartire nell'arco di un triennio; 
ad attivare iniziative dirette alla valorizzazione dell'olio extravergine di oliva, con particolare riguardo ad azioni divulgative volte a favorire la conoscenza delle proprietà nutrizionali e salutistiche degli oli extravergini di qualità.