Discussione sulle linee generali
Data: 
Mercoledì, 17 Dicembre, 2014
Nome: 
Simonetta Rubinato

A.C. 2613-A

 

Signor Presidente, onorevoli colleghi, rappresentante del Governo, intervengo con grande umiltà nel processo di riforma della nostra Carta fondamentale e anche con grande rispetto per il lavoro svolto dai relatori e dai colleghi della I Commissione. Intervengo limitatamente al nuovo punto di equilibrio che si sta cercando di trovare nel rapporto tra sovranità statale e autonomie territoriali, sia attraverso il superamento del bicameralismo paritario, assolutamente necessario, sia attraverso la modifica, non di poco conto, dell'assetto regionalista uscito dalla riforma costituzionale del 2001. Da un lato credo sia da salutare con grande favore lo sforzo, all'interno di un ordinamento regionalista come quello italiano, di dare finalmente al Senato la funzione di strumento per la cooperazione, nella fase legislativa, delle istituzioni locali con le istituzioni nazionali. Certo, forse si può ancora migliorare questo esito, a mio avviso, importantissimo, come ha suggerito il professor Bin durante le audizioni, per assicurarsi che il Senato divenga davvero il luogo della rappresentanza delle istituzioni locali e non risponda, invece, a divisioni, non riproduca invece le divisioni politiche, perché deve servire a creare una sede di confronto vera ed effettiva tra le rappresentanze non dei diversi livelli di Governo ma dei diversi territori, facendo emergere e risolvendo anche quei conflitti territoriali come accade nel Bundesrat tedesco. 
Dall'altro lato, però, non si può ignorare che la scelta di fondo di questa riforma, mentre introduce il Senato della Repubblica come Senato delle autonomie, consiste in un forte processo di riaccentramento delle competenze, al di là del fatto che ragionevolmente, a giudizio pressoché unanime degli stessi costituzionalisti, si ritiene debbano essere riaccentrate. Sbagliare, sia pure con le migliori intenzioni, il punto di equilibrio tra sovranità statale e autonomie territoriali, non possiamo permettercelo nella situazione economica, sociale ed istituzionale attuale. 
Provo a richiamare con grande umiltà quello che, secondo me, è concetto di autonomia e sovranità statale che ci hanno consegnato i padri costituenti, richiamando i principi della Carta fondamentale, i primi articoli, e ricordando qui una citazione del Cattaneo: «È principio tutto ciò che genera conseguenza» e «Tale è la virtù dei principi che, fuor di essi, ogni sforzo di valore e di sacrificio è vano». Secondo i padri costituenti – l'articolo 5, che viene dopo l'articolo 2, diritti inviolabili, e dopo l'articolo 3, la necessità che la Repubblica rimuova gli ostacoli di ordine economico e sociale alla libertà e all'uguaglianza dei cittadini – sia la sovranità statale che l'autonomia sono degli strumenti fondamentali per la realizzazione della persona e dei sui diritti fondamentali. Le autonomie per i costituenti sono degli strumenti a garanzia delle comunità locali affinché possano entrare nelle istituzioni, sono strumenti di democratizzazione dello Stato in quanto naturalmente più adatte a realizzare quel collegamento tra persone cittadine, società ed istituzioni civiche. Insomma sono veicoli di partecipazione della società alla sovranità. Secondo il principio di sussidiarietà le istituzioni territoriali sono più vicine ai cittadini, ne conoscono le esigenze meglio e consentono di soddisfarle in modo più efficace che non quello che potrebbe fare una legge generale dello Stato, tanto più in un Paese così diverso alle diverse latitudini come è l'Italia. Perciò il nucleo del principio autonomistico non è la garanzia della collettività o di una collettività di autogovernarsi e punto. È la garanzia della collettività di autogovernarsi al fine di soddisfare meglio i diritti ma vorrei anche dire le aspirazioni, i progetti, il sogno comune delle persone che costituiscono la collettività. A tutt'oggi è evidente che qualcosa non ha funzionato anche dopo la riforma del Titolo V del 2001 che doveva attuare molto di più questo obiettivo dei padri costituenti. Anzi l'ultima esperienza, l'esperienza degli ultimi anni ci dice che più che consentire una nuova modalità di esercizio della sovranità, altra e più democratica rispetto a quella statale astratta, le autonomie hanno finito con il rappresentare anch'essa, come lo Stato che dovevano democratizzare, enti le cui istituzioni sin sono separate dalla società e ne sono testimonianza le vicende di gravissima malapolitica che riguardano regioni ma anche comuni e province, per cui le stesse istituzioni locali anziché strumento di maggiore democrazia e partecipazione sono diventate oggetto di fortissima critica, sfiducia, richiesta di processi più trasparenti da parte dei cittadini. 
La risposta qual è ? È semplicemente riaccentrare ? Credo di no, vorrei citare qui quanto ha dichiarato il viceministro Morando, il 23 luglio scorso, in occasione della relazione annuale al Parlamento e al Governo da parte del CNEL sui livelli e qualità dei servizi erogati dalle pubbliche amministrazioni centrali e locali a imprese e cittadini che poi è l'obiettivo che i costituenti danno a questi strumenti della sovranità statale e delle autonomie. Dice il viceministro Morando: i dati ci dicono che la sanità italiana è di eccellenza mondiale – salto le precisazioni e vado solo ai punti fondamentali – questo contrasta con una marea di luoghi comuni; sicuramente quando si parla di sanità italiana si parla di un risultato medio che all'interno del Paese presenta grandi disparità e anche possibilità di miglioramento, ma è sicuro che se c’è un settore della pubblica amministrazione, in Italia, che regge magnificamente la comparazione internazionale è la sanità, mentre c’è un settore come la giustizia che ci dice che siamo in un disastro mondiale. Il cattivo funzionamento della giustizia poi fa abbassare tragicamente la produttività totale dei fattori e la performance del sistema economico nel suo complesso. 
Allora, e lo dice il viceministro Morando, è un luogo comune che questo decentramento, questo nuovo Titolo V non funzioni. Io non ho ragioni per difendere le regioni ma se guardiamo la sanità e la giustizia dobbiamo comparare costi e risultati: la giustizia è un servizio assolutamente centralizzato, organizzato alla dimensione dello Stato centrale per tutti i suoi aspetti fondamentali; per la sanità, obiettivamente, è vero il contrario. Ora la teoria secondo cui in periferia non funziona niente, mentre un servizio centralizzato sarà perciò stesso magnifico è un classico pregiudizio. In questo pregiudizio non dobbiamo assolutamente cadere mentre riformiamo il Titolo V della Costituzione e, anche qua, richiamando un personaggio che mi sta particolarmente a cuore; come diceva il Cattaneo, non si tratta qui di trovare una risposta ai diritti fondamentali dei cittadini semplicemente accentrando o decentrando di più, ma «si tratta di coordinare la vera e attuale vita legislativa degli Stati italiani – diceva lui allora, oggi potremmo dire delle regioni e dello Stato – a un principio di progresso comune e nazionale finalmente». 
Invece, anche per quanto riguarda la normativa che negli ultimi anni, sotto la pressione della crisi della finanza pubblica, abbiamo dovuto adottare anche da questo Parlamento, ci troviamo in una situazione di stagnazione istituzionale che sta determinando una vera e propria disfunzione del sistema repubblicano. Mentre approvavamo nominalmente il principio del federalismo fiscale nelle scelte finanziarie e negli ordinamenti concreti si attuava, in questo Paese, una legislazione nazionale già improntata alla ricentralizzazione dei poteri, all'uniformità legislativa, sulla base di una visione che considera le regioni e le autonomie locali solo un problema della politica fiscale e di bilancio, mentre in realtà un grande cambiamento viene richiesto nel principio di autonomia allo stesso Stato centrale. Uno Stato regionalista, come ha detto bene il professor Bin che cito, uno Stato delle autonomie, tanto più con un Senato delle autonomie, ed efficiente, dovrebbe ridursi a tre fondamentali funzioni: la definizione di politiche pubbliche, il monitoraggio della loro implementazione e, sottolineo «e», la sostituzione, qui sì ci vuole lo Stato forte, delle amministrazioni inadempienti. Tutto questo comporta che vadano riconvertite le strutture burocratiche dei ministeri, mentre invece ancora nel 2009 il 59 per cento dei dipendenti pubblici stavano nelle strutture ministeriali e invece i ministeri vanno riconvertiti a svolgere funzioni molto diverse da quella a cui sono oggi abituati. Bisogna, per riconvertire però la burocrazia, avere una forte politica. 
Io credo che quello di cui abbiamo bisogno sia riprendere un percorso serio autonomistico, perché un assetto regionalista è l'ordinamento più consono ad una comunità politica organizzata nell'ambito di un processo di integrazione europea e di un sistema di economia internazionalizzata nel quale i compiti dello Stato crescono sul versante esterno delle negoziazioni internazionali ed europee e si riducono su quello interno, prevalentemente dovrebbero essere volti alla funzione perequativa e promozionale dei territori. Come ? Tutto questo richiede di sostituire l'attuale regionalismo a geometria rigida, di fatto limitato per le regioni a statuto ordinario a una mera delega di spesa su un numero di materie assolutamente contenuto, senza una responsabilità reale che favorisca la crescita di una nuova classe dirigente locale di qualità, con un assetto di Governo che sappia graduare e responsabilizzare in modo adeguato i diversi concorrenti livelli tra loro in leale collaborazione e in cui a poteri locali reali corrisponda una sorta di obbligo alla virtù per fattori non solo soggettivi, ma strutturali, prefigurando un'architettura a geometrie variabili e concertate, ivi compresa la necessaria connessione che va finalmente attuata tra capacità di spesa e prelievo fiscale.
Da questo punto di vista, il disegno della riforma, che cerca comunque di andare in questa direzione anche semplificando il lavoro importante fatto al Senato di semplificare le possibilità per un'autonomia differenziata anche per le regioni ordinarie, presenta tuttavia alcuni punti critici, sui quali io credo e mi auguro possa l'Aula migliorare il lavoro fatto sia dal Senato che dalla I Commissione. 
I punti critici sono – li ricordo solo alcuni – innanzitutto, la clausola di supremazia, introdotta dalla nuova formulazione dell'articolo 17, comma 4, che stabilisce che lo Stato può avocare in via generale a sé anche le materie che non gli sono riservate in via esclusiva – e la concorrente se ne è andata – quando lo richieda la tutela dell'unità giuridica ed economica della Repubblica, che così com’è costruita uno dei professori auditi in Commissione l'ha definita una «clausola vampiro», nel senso che qualsiasi materia, e senza differenze tra regione e regione, può essere accentrata senza alcuna valutazione della necessità di farlo per il raggiungimento di un migliore e buon andamento della pubblica amministrazione. C’è il tema della materia del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, che secondo la nuova formulazione dell'articolo 117, comma 2, lettera e), viene riportata nella competenza esclusiva dello Stato, con l'effetto diretto di eliminare la potestà primaria e legislativa delle regioni in materia fiscale, come ci ha spiegato in Commissione bicamerale per il federalismo il professor Gallo, già Presidente della Corte costituzionale, ma anche con l'effetto indiretto di legittimare i tagli lineari e con l'effetto ancor più paradossale di legittimare ancora meccanismi di Governo della spesa pubblica che sono deresponsabilizzanti sia per lo Stato che per gli enti locali, rafforzando la finanza di trasferimento invece di dare attuazione al federalismo fiscale. 
Infine, il terzo punto critico è la non applicazione allo Stato di questa riforma alle regioni speciali, ma solo a seguito di intese, cosa che farà sì che avremo un aumento della differenza del divario fra le regioni speciali, che rimangono più di prima speciali, e le regioni ordinarie, che, dopo questa riforma, saranno ancora più ordinarie, senza alcuna differenza tra chi ha dimostrato di esercitare in modo responsabile l'autonomia e chi no. Anche questo è un punto molto critico, in particolare per regioni – io vengo dal Veneto – che si trovano tra due regioni a statuto speciale, confinano con uno Stato straniero e soffrono moltissimo il divario di diritti che sono possibili grazie all'autonomia finanziaria delle regioni confinanti e anche il divario di competitività per le imprese. 
Quindi, da questo punto di vista, lo strumento, per non buttare via il bambino con l'acqua sporca e per rafforzare l'impianto di questa riforma, è quello di un regionalismo differenziato e a geometria variabile, che può consentire di dare, attraverso un negoziato, tra singole regioni e Governo, più autonomia alle regioni in grado di gestirla con responsabilità. Da questo punto di vista, va rafforzato, secondo me, l'articolo 116, per evitare, nei prossimi anni, di raggiungere un punto di non sostenibilità per il sistema. 
Concludo con una citazione. Al di là di ogni norma che andremo a scrivere, bene o male, certamente speriamo di farlo bene, come diceva il Calamandrei, la Costituzione è solo un pezzo di carta, se le classi dirigenti di un Paese ma anche se tutti i cittadini non la animano con la loro intelligenza, la loro passione, la loro virtù civica, il senso e l'impegno per un comune destino. Al Paese serve una fase costituente anche fuori dal Parlamento, di cui deve essere per prima portatrice la classe dirigente. Occorre riscoprire i principi fondamentali della nostra Carta fondamentale; forse bisognerebbe farlo aprendo un dibattito nel nostro Paese e portando questa discussione il più possibile fuori, in mezzo al popolo. 
Chiudo, infine – oggi mi sono ripetuta, è la terza volta che cito Carlo Cattaneo –, con una sua citazione. 
Dal testo Il diritto federale, nel Proemio all'Archivio triennale delle cose d'Italia: «Ogni popolo, e la Carta costituzionale è questione di popolo, è una cosa che interessa al popolo; ogni popolo può avere molti interessi da trattare in comune con altri popoli – lui si riferiva ai popoli italiani, agli Stati che si stavano unificando, noi potremmo parlare delle nostre regioni – ma vi sono interessi che può trattare egli solo, perché egli solo popolo li sente, perché egli solo li intende e v’è inoltre in ogni popolo anche la coscienza del suo essere, anche la superbia del suo nome, anche la gelosia dell'avita sua terra. Di là il diritto federale, da qui il diritto federale, ossia il diritto dei popoli il quale – e ho concluso – deve avere il suo luogo, accanto al diritto della nazione, accanto al diritto dell'umanità». Grazie Presidente