Data: 
Martedì, 9 Settembre, 2014
Nome: 
Andrea Manciulli

Presidente, Ministro, la devo ringraziare per questa sua relazione così attenta, divisa in tre parti, tutte e tre condivisibili. L'ultima parte mette in luce come nel nostro Paese in realtà – meno nell'opinione pubblica e in chi la rappresenta, ma soprattutto nelle Forze dell'ordine, che combattono questi fenomeni – l'attenzione non sia mai venuta meno. Lo testimonia anche la presenza qui, accanto a noi, di un nostro collega, l'onorevole Stefano Dambruoso, che è uno dei principali magistrati che in questi anni si è occupato della lotta al terrorismo con grande merito ed al quale dobbiamo molto.
  Tuttavia, se oggi non vogliamo sbagliare non dobbiamo soprattutto commettere, a mio avviso, tre errori. Il primo: non bisogna sottovalutare l'estensione della minaccia. È vero, c’è l'ISIS, che ha acceso i riflettori su un aspetto nuovo, del quale bisogna parlare, ma la realtà della quale bisogna occuparsi – ed ha fatto bene in questo senso il vertice della NATO – è che, negli ultimi dieci anni, geograficamente, se facessimo una mappa, l'estensione della minaccia è diventata molto ampia. Se si pensa agli attori tradizionali – l'Afghanistan, il Pakistan, l'Iraq – si è aggiunta la Libia, dove c’è Ansara al-Sharia, si è aggiunta la fascia del Maghreb desertico, che sta appunto fra la Libia e tutto il Sahel, dove c’è AQMI, si è aggiunta la Somalia, dove c’è al-Shabaab, si è aggiunta la Nigeria, dove c’è Boko Haram, ci sono fenomeni quaedisti ed integralisti nel Sud-Sudan, nel Sinai, che ormai è diventato... gli egiziani, Al Sisi, nel suo discorso di investitura, ha posto il tema della riconquista del Sinai come uno dei temi fondamentali per il nuovo Egitto. E poi c’è la Siria, con Annusra, che non è la stessa cosa di ISIS, ma non è meno pericolosa, per certi versi.
  Sarebbe un errore considerare questo solo terrorismo: siamo di fronte ad un conflitto asimmetrico, come lo ha definito la NATO, che chiama in causa anche una nostra diversa capacità di porsi di fronte al problema. Vanno uniti gli sforzi della difesa, degli interni, degli esteri: è una minaccia che va, come stiamo proponendo, affrontata con mezzi nuovi.
  Non bisogna sottovalutare l'ISIS. Perché ? Perché l'ISIS è uno di quei grossi mutamenti che si sono prodotti dopo la morte di Bin Laden. C’è stato un dibattito nell'arcipelago jihadista. Lo dice bene nel suo libro, che parla della jihad in Italia, Lorenzo Vidino, che è a mio avviso uno studioso interessante, che va conosciuto. Ha presentato, tra le altre cose, qui alla Camera il suo lavoro, in una sala quasi deserta. Ci fu un dibattito: questo dibattito era fra le forze tradizionali, che volevano continuare la lotta jihadista nei metodi classici (non è un caso che l'altro giorno sia tornato a parlare Al-Zawahiri, che ha detto: «Sta crescendo il movimento, siamo anche in India», e siamo nell'alveo classico, e l'ISIS. L'ISIS è qualcosa di nuovo; è un movimento che ha due matrici: da una parte, per la prima volta si parla di guerra islamica, per uno Stato islamico, cioè un fenomeno di guerra aperta, in campo aperto, alla luce del sole, come richiamo. A me ha colpito: ho imparato e studiato questi fenomeni soprattutto in Francia e mi ha colpito l'altro giorno, tornando nelle periferie nord di Parigi, di vedere le scritte che inneggiavano allo Stato islamico e all'ISIS. È un fenomeno che va in campo aperto, ma che flirta più di altri con la nuova tipologia della minaccia, che è la minaccia più difficile da contrastare: quella del lupo solitario, dell'uomo solo, dell'uomo che va ad addestrarsi facendo la guerra dell'Islam e che torna. A volte è silente, come sono stato silente Merah e come è stato silente l'attentatore di Bruxelles, che un giorno appare, compie una strage, essendo stato, per molti che lo hanno avuto vicino, un vicino di casa quasi innocuo, del quale non ci si accorgeva.
  È una minaccia pericolosissima, perché è la minaccia che più delle altre fa nascere la paura dell'uomo accanto, dell'uomo che non vedi e non conosci. L'ISIS è per questo, a mio avviso, molto pericolosa: perché rappresenta una possibile escalation di questo fenomeno e ce ne dobbiamo occupare, come lei ha detto. Ma c’è un errore, che a mio avviso è l'errore più grande che non dobbiamo commettere: quello di considerare questa battaglia come una battaglia che sta lontano da noi.
  Non dobbiamo pensare, perché è terrorismo internazionale, che la parola «internazionale» stia lì perché è una cosa che vive dall'altra parte del mare, che è comunque vicino, che vive lontano. La realtà è che in questi anni è cresciuto terribilmente il coinvolgimento europeo, è cresciuto idealmente. E come è cresciuto è motivo di indagine e di comprensione politica. In Francia molto proselitismo, soprattutto per i lupi solitari, è avvenuto nelle carceri, dove giovani delle periferie, talvolta delinquenti comuni, sono arrivati lì da piccoli delinquenti e hanno incontrato la malvagità molto spesso dei loro colleghi. Perché questa è stata la dinamica, bisogna dircelo, bisogna uscire su questo dall'ipocrisia. Sono stati contrastati e hanno trovato protezione nelle bande di reclutamento fondamentalista che ci sono in molte carceri del nostro continente, trovando una risposta alla propria insicurezza psicologica, alle proprie difficoltà. E non è un caso che gli insediamenti salafiti più radicali siano tutti nelle periferie più disagiate di una parte del nostro continente. L'Europa questo problema non lo può scaricare su altri, è un problema nostro.
  E, come diceva lei, lo voglio dire ancora con più nettezza perché sono molto d'accordo: il video dell'esecuzione di Foley e di Sotloff non è un caso; non è che per caso hanno sbagliato, hanno cercato qualcuno che facesse questa operazione e per caso era un inglese. Volutamente si è scelto un inglese. Si voleva dare un messaggio, giustamente bivalente, ma soprattutto si voleva dire che siamo fra noi. Io vengo dal vertice della NATO dov'ero come presidente della delegazione italiana. In Inghilterra c’è una grande preoccupazione perché questo fenomeno li riguarda e la stessa cosa in Francia. In Italia, grazie a Dio, il fenomeno è meno forte, ma quando si guardano vicende come quella di Jarmoune o dell'altro giovane Al Aboubi, che ha raggiunto, fra le altre cose, essendo stato scarcerato da un tribunale italiano, l'ISIS, si vede la vicenda di giovani che cercano un nuovo orizzonte. Se l'Europa non si erge con i propri ideali, con la propria sfida di civiltà a sconfiggere questo fenomeno, noi questa battaglia non la vinciamo.
  E io credo che l'Italia, perché sta in questo mare, perché è riuscita a spostare l'attenzione, anche dell'Alleanza atlantica, sul Mediterraneo, questa battaglia la debba fare fino in fondo come una battaglia di civiltà, che non è una battaglia di religione, ma di civiltà sì. Deve essere fatta tutta insieme e fino in fondo. Per questo, Ministro, siamo al suo fianco, al fianco del Ministro degli affari esteri e del Ministro della difesa, perché qui si gioca una pagina per scrivere la storia del nostro Paese e dell'Europa.