Discussione sulle linee generali
Data: 
Lunedì, 1 Ottobre, 2018
Nome: 
Andrea Romano

Grazie, Presidente. Io vorrei iniziare questo mio intervento, riportando in quest'Aula, a distanza di poco più di un secolo, le parole di uno dei nostri soldati, di uno dei nostri eroi, come poc'anzi il collega di Fratelli d'Italia diceva, quei soldati che combatterono nella Grande Guerra. Cito queste parole con tanto di errori ortografici, era naturalmente, come emergerà, un figlio del popolo, semianalfabeta, che scriveva: “spero, cara moglie, che vada terminata questa guerra micidiale, che invece di diminuire va allargandosi sempre più e fa piangere madri, padri, mogli e figli, fratelli e sorelle di tutti quelli che si ritrovano in detta guerra”. Questo è un brano della lettera, per l'appunto, che un anonimo prigioniero di guerra italiano, detenuto nel campo tedesco di Theresienstadt, scrisse alla famiglia, che si trovava ad Altavilla, in provincia di Vicenza, nella fase finale della prima guerra mondiale.

Quando ricordiamo la grande guerra - e queste parole ci incoraggiano a farlo -, quando ricordiamo il primo e grande e devastante conflitto del ventesimo secolo, siamo tenuti tutti a ricordare, in primo luogo, le sofferenze che quei combattimenti portarono al nostro Paese, al nostro continente e anche a Paesi che non facevano parte del nostro continente. Oltre un milione di vittime italiane, tra civili e militari, pari a circa il 3 per cento della nostra popolazione dell'epoca e quasi venti milioni di morti per tutti i Paesi combattenti. Una strage enorme, un'inutile strage, per citare le parole tristi e celeberrime pronunciate da Papa Benedetto XV nell'agosto del 1917, un rogo spaventoso di vite umane e di risorse economiche, civili e culturali.

Ecco, Presidente, noi dobbiamo partire da qui per ricordare sia l'eroismo dei nostri soldati, che si batterono nelle trincee con abnegazione e sacrificio nonostante i numerosi errori, spesso catastrofici, dei vertici politici e militari, sia per ricordare l'impegno dei milioni di civili, donne e uomini, che garantirono con la propria fatica, nelle fabbriche, nei campi e nei luoghi di lavoro, che lo sforzo militare del nostro Paese fosse sostenuto da un impegno economico adeguato.

Ecco, dobbiamo partire da qui, dalle sofferenze, soprattutto se ci poniamo l'obiettivo - come ci poniamo l'obiettivo con queste nostre mozioni o almeno questo è l'obiettivo che si pone la mozione presentata dal Partito Democratico - di chiedere al Governo di dedicare spazio adeguato e risorse adeguate alla rievocazione del primo conflitto mondiale. Perché, Presidente, rievocare oggi quel conflitto significa indicare alle nuove generazioni le ragioni di quel conflitto e le conseguenze di quella strage. E questo lavoro di racconto, spiegazione e ammonimento serve proprio a far sì che l'eroismo e il sacrificio dei nostri soldati e dei nostri civili non sia stato inutile, che il sangue di nostri morti non vada perduto in una retorica che rischia di essere fine a se stessa, ma serva, anche a distanza di un secolo, affinché quella inutile strage, per l'appunto, non abbia più a ripetersi.

Dobbiamo allora ricordare che la Grande Guerra nacque da un clamoroso fallimento della politica e della diplomazia, politica e diplomazia che non riuscirono a conciliare interessi nazionali diversi e spesso divergenti; interessi nazionali che avrebbero potuto essere composti dalla comunità internazionale, anche se naturalmente la comunità internazionale dell'epoca non disponeva degli strumenti e dell'articolazione di cui gode da almeno qualche decennio, ma potrebbero e avrebbero potuto essere composti, quegli interessi nazionali, se le leadership politiche che quegli interessi rappresentavano non avessero percorso la strada dell'affermazione solitaria delle proprie ragioni a qualunque costo. Un costo che alla fine - e lo ricordavo poco fa - sarebbe risultato catastrofico per tutti, sia per coloro che uscirono vincitori da quel conflitto, sia per coloro che, invece, ne uscirono sconfitti. Perché la prima lezione di quel conflitto è una lezione non accademica, ma politica, e che noi oggi dobbiamo ricordare. La prima lezione è che chi ritiene di fare gli interessi del proprio Paese affermando quegli interessi in modo solitario, in modo aggressivo, in modo ostile alla comunità internazionale, prima o poi condanna il proprio Paese alla catastrofe.

Oggi forse chiameremmo quell'atteggiamento sovranista, usando una parola che va di moda, per l'appunto, ovvero l'atteggiamento di quei politici che ritengono che l'unico metro di giudizio per l'azione internazionale sia il proprio interesse non nazionale, ma di partito, magari travestito da interesse nazionale, quell'interesse di partito, ma che interesse di partito resta. E ritengono, quei politici, che quell'interesse di partito debba essere fatto prevalere contro ogni forma di cooperazione internazionale. Allora, oltre un secolo fa usavano altri termini, non era ancora stato inventato il termine sovranista, allora erano le ragioni dell'interventismo, delle radiose giornate di maggio, di un partito della guerra, così si chiamò, che fu trasversale alle famiglie politiche, che godette di enormi consensi sulla stampa e persino sulle piazze, sulle strade; anche allora ci fu chi si affacciò dai balconi, anche allora ci fu chi festeggiò quella che sembrava, appunto, una svolta positiva per il Paese e che, invece, tre anni dopo e un milione di morti dopo, sarebbe apparsa come una immane catastrofe nella quale l'Italia avrebbe bruciato le sue migliori risorse umane, civili, economiche e culturali. E la lezione di quegli anni, Presidente, è che i sovranismi, prima o poi, entrano in conflitto tra di loro, perché c'è sempre un sovranista più sovranista di te e questi atteggiamenti prima o poi scatenano conflitti che possono essere catastrofici, come fu catastrofico il primo conflitto mondiale.

Lo stesso ragionamento che dobbiamo tenere a mente, io credo, riflettendo da legislatori sugli insegnamenti della prima guerra mondiale riguarda le conseguenze di quella catastrofe, che avrebbe cambiato per decenni la storia europea in peggio, per esempio in Italia, in Germania e in parte dell'Europa centrale, aprendo la strada al totalitarismo fascista, al totalitarismo nazista, o in Russia, tracciando la via che sarebbe poi sfociata nella dittatura staliniana, ma in tutta Europa certamente inaugurando una stagione di declino civile ed economico da cui il nostro continente si sarebbe ripreso solo molti, molti decenni dopo e solo dopo un altro e ancora più devastante conflitto.

Che cosa ci racconta la riflessione sulle cause e sulle conseguenze della Grande Guerra? Che quella strage, quell'inutile strage fu l'anteprima di alcuni dei mali più devastanti del ventesimo secolo. Ricordiamone alcuni, di questi mali, affinché siano ben presenti al nostro lavoro di legislatori, che giustamente stanno richiamando il Governo al dovere di celebrare opportunamente quella vicenda tanto fondamentale per la nostra storia. Cominciamo, per esempio, con una certa idea di nazione, l'idea di nazione che prevalse in quel conflitto: un'idea di nazione che venne considerata, allora, come un dato di natura, immutabile e non subalterna, né mediabile rispetto ad alcuna mediazione diplomatica o politica, mentre la nazione - e oggi, anche alla luce delle catastrofi del ventesimo secolo, lo sappiamo - non è un dato di natura, ma è piuttosto una rappresentazione culturale, politica, una costruzione consapevole, hanno scritto alcuni, che può essere declinata in modi diversi gli uni dagli altri.

Ed è quindi la differenza tra varie idee di nazione o, meglio, tra un'idea di nazione ostile, affermativa, isolazionistica e un'altra idea di nazione che può essere, per l'appunto, costruita anche da un dibattito pubblico, è nella differenza tra queste due idee di nazione che si stende tutta la differenza tra patriottismo e nazionalismo, laddove, come ha scritto Romain Gary, “il patriottismo è amare la propria gente, il nazionalismo è odiare gli altri”. La nazione, Presidente e colleghi, non è sangue e suolo; la nazione è cultura, cura e coltivazione di un'identità. Ed è qui che si radica l'idea democratica della difesa dell'interesse nazionale, una difesa motivata culturalmente, politicamente e soprattutto aperta al dialogo, alla mediazione, alla declinazione del proprio patriottismo dentro le istituzioni multilaterali e sovranazionali e non nell'isolamento chiuso e ostile.

Ma un altro di quei mali che emerse nel corso della Grande Guerra fu l'idea che l'avversario, il nemico fosse un essere abietto, inferiore dal punto di vista razziale, e fu in quel frangente storico, per l'appunto, che emersero elementi di un razzismo che poi si sarebbe dispiegato in maniera catastrofica, come sappiamo tutti, e tali aspetti emersero nel corso di quella guerra - va detto con sincerità - anche da parte italiana, per esempio nella brutalizzazione del nemico, nelle strategie comunicative di brutalizzazione del nemico, quello che era allora l'odiato tedesco e che poi sarebbe diventato l'odiato con varie altre declinazioni nazionali.

Ma pensiamo anche al ruolo negativo, ovviamente, che ebbe l'antisemitismo nel corso della catastrofe della Grande guerra mondiale e nel corso delle sue immediate conseguenze, laddove alle comunità ebraiche venne addossata la responsabilità della sconfitta, per esempio in Germania, o addirittura la responsabilità di avere provocato la Prima guerra mondiale in molti Paesi europei e dove la declinazione identitaria e razzista della nazione fu volta ad espellere dalla propria comunità coloro che venivano percepiti come estranei. E, ancora, tra i mali di quel frangente storico come non ricordare tra le conseguenze del conflitto lo sfruttamento del mito della vittoria mutilata e, quindi, dell'interventismo tradito, elementi che alimentarono una strategia sovversivistica che sarebbe poi sfociata nella dittatura fascista.

La nostra Costituzione, la Costituzione repubblicana, ha ben recepito gli insegnamenti del Primo conflitto mondiale e del Secondo conflitto mondiale, per esempio rifiutando la guerra d'aggressione ma anche mettendo al centro della nostra azione diplomatica la comunità internazionale e le obbligazioni che ne derivano. Naturalmente - mi riferisco all'articolo 11 della Costituzione - laddove si scrive che l'Italia non solo rifiuta la guerra di aggressione ma “consente - e cito - (…) alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni”, che poi sono, appunto, queste obbligazioni l'unico modo per rendere compatibili interessi nazionali, che possono naturalmente divergere, con la difesa della pace e la difesa di un ordinamento sovranazionale ispirato alla giustizia.

Questo era ed è, fino a prova contraria, uno degli insegnamenti che i nostri padri costituenti hanno voluto mettere alla base della nostra comunità repubblicana, un insegnamento che noi finora abbiamo dato per scontato ma che potrebbe essere in qualche modo rimesso in discussione e che forse già è messo in discussione da questi nuovi tempi politici, perché non possiamo, io credo, dare per scontato che tutto vada avanti in una progressione, come dire, ottimistica verso il futuro. C'è il rischio, come è successo anche in passato, di tornare indietro, di regredire, di archiviare come se fossero ormai elementi scontati e dati, appunto, per acquisiti realtà, elementi e principi che sono invece nati, come nel caso dell'articolo 11 della Costituzione, dalla consapevole e sofferta esperienza del nostro Paese attraverso due catastrofi mondiali. Questo rischio noi lo vediamo, per esempio, nel riemergere di una retorica etnonazionalista, perché di questo si tratta, per la quale si ritorna a concepire la nazione in termini assolutistici, naturalistici e, dunque, non sottoposti ad alcuna forma di mediazione con la politica e con la diplomazia, allorché si torna a parlare di etnia invece che di nazione come comunità culturale e politica, di etnia e dando per scontato che le etnie esistano, che esistano e che siano naturalmente in conflitto.

Questo fu uno dei grandi scenari dietro al quale si combatte la Prima guerra mondiale, uno dei grandi scenari che ritornarono di lì a poco con la Seconda guerra mondiale, con i conflitti etnici, con lo sterminio ebraico e con la Shoah, insegnamenti novecenteschi che noi - lo ripeto ancora una volta - non possiamo ritenere scontati una volta per tutte ma che possono e sono in effetti rimessi in discussione.

Infatti Presidente - e mi avvio alla conclusione - la retorica etnonazionalistica è la radice della guerra, è la radice del conflitto senza mediazioni, è la radice anche del consenso o, meglio, della ricerca di un consenso orientato all'aggressione e all'isolamento.

E ora - e mi rifaccio alla nostra mozione - che ci accingiamo ad esercitare il nostro ruolo di legislatori chiedendo, per l'appunto, al Governo di onorare la memoria della Prima guerra mondiale, tra l'altro riprendendo e proseguendo un lavoro legislativo positivo che fu avviato già dal 2013 con vari atti legislativi e di governo che hanno dato risorse e strumenti alla rievocazione, per l'appunto, della Prima guerra mondiale, ora che ci accingiamo a fare questo lavoro ricordando l'eroismo dei nostri soldati e l'abnegazione delle donne e degli uomini che consentirono al nostro Paese, nel corso del Primo conflitto mondiale, di difendere la nostra integrità territoriale, dobbiamo, io credo, provare a non sprecare questa occasione con un vuoto esercizio di retorica ma provare a ricordare a noi stessi e soprattutto alle nuove generazioni, che saranno, naturalmente, i destinatari di questo sforzo - e davvero concludo -, le ragioni di quel conflitto, le conseguenze di quel conflitto e i mali che quel conflitto contenne, con un obiettivo preciso che spetta a noi come politici e come legislatori: fare di tutto per rimuovere, una volta per sempre dalla storia italiana, le ragioni politiche e culturali che ci portarono a quella catastrofe