Data: 
Giovedì, 4 Settembre, 2014
Nome: 
Khalid Chaouki

Signor Presidente, cari colleghi, gli accordi presi dal Consiglio europeo a Fontainebleau nel lontano 1984, che prevedono in favore della Gran Bretagna uno sconto, un beneficio, originavano dall'esigenza di compensare un Paese a scarsa vocazione agricola che, a differenza di Francia e Italia, non usufruiva dei cospicui finanziamenti della nascente politica comune europea. È evidente come quelle argomentazioni alla base degli accordi di Fontainebleau siano oggi superate e dunque assolutamente condivisibili le riflessioni volte a un superamento di quegli accordi. Occorre infatti superare quelle scelte e la persistenza nell'accordare tale vantaggio (confermato anche nel 2007) ingiustificato e anacronistico, anche in considerazione della crisi economica che ha colpito in maniera diversa alcuni Paesi membri, ma soprattutto in seguito alla riduzione delle risorse europee in particolare in materia di PAC. La permanenza di ingiustificati vantaggi a favore di un solo Paese non fa che aumentare gli squilibri fra gli Stati membri. È evidente, dunque, la necessità di avviare una riflessione in sede europea affinché tali meccanismi e criteri siano rivisti e rinegoziati, anche a fronte della persistente dicotomia fra quanto versato nel bilancio europeo e quanto ricevuto da parte dell'Italia. Da un lato va superato il criterio del rebate, quale è quello previsto per il Regno Unito, e ogni forma di regolamentazione che inserisca eccezioni e deroghe nazionali in una logica di negoziazione intergovernativa e bilaterale, dall'altro bisogna riaffermare la necessità di rivedere i meccanismi di predisposizione del bilancio europeo, che nell'ultima programmazione del quadro finanziario pluriennale ha visto per la prima volta una contrazione, su spinta dell'azione dei Paesi rigoristi. Contrazione che in parte e’ stata mitigata, anche grazie alla battaglia italiana in tale direzione, da alcuni interventi correttivi del Parlamento europeo che prevedono una maggiore flessibilità per l'uso delle risorse. 
Le esigue risorse del bilancio europeo indeboliscono infatti l'Europa e rendono difficile il raggiungimento degli ambiziosi obiettivi di Europa 2020, con particolare riferimento alle iniziative faro per la ricerca, gli investimenti produttivi, la lotta contro la povertà e la disoccupazione e in favore della cittadinanza europea. L'insufficienza di risorse appostate a livello europeo evidenzia poi la situazione squilibrata anche per quanto riguarda i cosiddetti saldi netti. A questo proposito va comunque precisato che, a differenza di quanto contenuto nelle due mozioni, l'Italia, seppure mantenga ancora un saldo netto negativo e peggiorando la sua posizione, al 12o posto in Europa in termini di PIL pro capite, ha tuttavia migliorato nel 2013 la sua posizione, divenendo il terzo contributore netto, passando dagli attuali 4.500 milioni di euro l'anno per il periodo 2007-2013, corrispondenti allo 0,28 per cento del RNL, a 3.850 milioni di euro l'anno per il periodo 2014-2020, con una riduzione media annuale di 650 milioni di euro per l'intero periodo 2014-2020. Il saldo negativo, secondo i dati finanziari con la UE, risulta di 5,7 miliardi di euro, a fronte dei 6,6 miliardi di euro del 2011. Il miglioramento è stato ottenuto grazie ad un aumento netto delle risorse destinate all'Italia per la realizzazione di programmi europei nell'ambito della politica di coesione, in controtendenza rispetto ad una generalizzata riduzione dei finanziamenti per la politica di coesione per gli altri Stati membri. Va inoltre ricordato che il saldo negativo italiano deriva in parte anche dal cattivo uso da parte del nostro Paese delle risorse europee, quindi da problemi nostri e non dell'Europa: fondi strutturali spesso usati in maniera frammentaria, senza obiettivi né una visione strategica per lo sviluppo del Paese, o peggio non completamente utilizzati, così come avvenuto anche nella programmazione conclusasi nel 2013 nella quale abbiamo speso solo circa il 52,7 per cento dei fondi comunitari. 
Per tutto quanto detto, è importante sottolineare che, pur essendo giusto il superamento di questa anacronistica clausola in favore della Gran Bretagna, è fuorviante ritenere che tale problematica sia la questione centrale o dirimente per superare gli squilibri esistenti nell'area euro e per incentrare una battaglia italiana in occasione della nostra Presidenza del semestre UE per un cambio di passo e per una vera svolta nelle politiche europee. Occorre invece cogliere l'occasione della Presidenza italiana dell'Europa per costruire un'Europa dove ritrovare un nuovo protagonismo italiano in sede europea e ribaltare complessivamente la logica sbagliata che fino ad oggi ha caratterizzato le politiche europee, incentrate sull'ossessione dell'austerità e di rigore dei bilanci pubblici, senza la previsione di risorse a livello europeo in favore di politiche per gli investimenti e la crescita, in grado di sopperire a livello sovranazionale alla contrazione a livello nazionale; politiche sempre agitate a parole ma poi mai implementate con risorse europee adeguate, anzi messe a rischio dalla recente approvazione del bilancio settennale con riduzione di risorse. 
Che quelle politiche in Europa si siano rivelate sbagliate, inefficaci e in tali casi disastrose, lo confermano i risultati negativi in riferimento all'aumento della disoccupazione giovanile, ma soprattutto al calo del PIL in tutta la zona euro. 
I recenti dati di agosto evidenziano un calo preoccupante perfino per la stessa Germania e ci dicono che la stasi dello sviluppo è un problema europeo: un problema a cui l'Europa della moneta unica deve dare risposte comuni che vanno oltre le leve della moneta e del credito. 
Il problema non è dunque il caso Italia, ma come invertire la rotta in tutta Europa. Per tali ragioni, va accolto come un primo importante segnale di cambiamento positivo – anche se non sufficiente – l'annuncio del nuovo Presidente della Commissione europea, Junker, per la predisposizione di un piano europeo di investimenti di 300 miliardi di euro in tre anni, per infrastrutture, trasporti, efficienza energetica, ricerca e innovazione. Un programma per la crescita che va sostenuto anche se occorre incalzare il nuovo Presidente della Commissione UE per anticipare, già a partire dal prossimo consiglio europeo di dicembre 2014, l'operatività del piano prima della data annunciata, febbraio 2015, facendo pressioni – anche in occasione della Presidenza italiana – affinché siano indicate meglio le risorse, anche quelle aggiuntive – visto che quelle indicate nella BEI potrebbero risultare insufficienti – con indicazioni dettagliate di obiettivi e strumenti. 
La battaglia italiana deve dunque incentrarsi sulla necessità di far valere in sede europea le ragioni in favore dell'attuazione del Patto di stabilità e crescita che tenga conto di una maggiore flessibilità per quanto riguarda il piano di rientro del debito, a fronte di una chiara implementazione delle riforme strutturali. È bene poi precisare che la richiesta di maggiore flessibilità per cui l'Italia dovrà battersi in sede europea – battaglia che tutto il Parlamento italiano dovrà sostenere convintamente a sostegno dell'azione dell'Esecutivo – non è la richiesta di uno «sconto» da parte del nostro Paese, ma è la riaffermazione del rispetto di quanto prevedono i Trattati europei, contro un'interpretazione sbagliata e suicida dei trattati da parte dei Paesi rigoristi. 
Il rispetto dei vincoli di bilancio non è in discussione. Quello su cui occorre concentrarsi è la declinazione corretta della flessibilità ai fini del rallentamento dal rientro del debito, che obbligherà il nostro Paese, in applicazione del fiscal compact, dal 2016 a un taglio dello stock di debito insostenibile. La domanda di maggiore flessibilità non comporta una modifica delle regole europee che già contemplano l'uso di margini di flessibilità, ma la richiesta di applicazione delle norme già esistenti, come quelle contemplate dal Regolamento europeo n. 1466 del 1997, secondo il quale se le riforme sono serie e hanno effetti sulla crescita nel medio periodo è possibile concedere deviazioni temporanee sui conti e applicando quelle che fanno riferimento alla crescita che prevedono di far rispettare i trattati anche a quei Paesi come la Germania che, avendo un surpluscommerciale, hanno sforato il tetto imposto dai Trattati.  I fatti ci hanno dimostrato che il paradigma del rigore fiscale, non controbilanciato dal rilancio degli investimenti e dal rafforzamento dell'economia reale, ovvero il paradigma del rigore virtuoso che auto-genera crescita senza politiche economiche per rafforzare le infrastrutture materiali ed immateriali, non regge. L'Unione monetaria europea nella gestione della crisi ha deluso e occorre voltare pagina anche perché, malgrado le regole di bilancio rigide, e irrigidite con il fiscal compact, non è riuscita a evitare un aumento del debito sul PIL di 30 punti percentuali tra il 2008 e il 2013. La concomitanza degli aumentati interessi sul debito e del calo nella crescita del PIL, ma anche l'inadeguatezza degli stabilizzatori economici e i confusi salvataggi di vario tipo hanno creato lo stallo odierno fatto di frammentazione e di bassa crescita. 
Per questi motivi, noi del Partito Democratico continuiamo a proporre, nel Parlamento europeo e nei Parlamenti nazionali, di andare oltre una politica economica restrittiva e prociclica, semplicemente basata sull’austerity e di superare le eccessive rigidità delle regole sottese al ciclo europeo del bilancio. Oggi, diversamente, noi crediamo vada accolta l'esigenza di rianimare e rifondare un rapporto con i cittadini anche attraverso il potenziamento degli strumenti di democrazia diretta, come l’ iniziativa legislativa e il referendum a livello europeo. Una questione democratica in Europa, coinvolgendo i cittadini, esiste oggi effettivamente se non si vuole far morire il sogno europeo e lasciare agli anti-euro, ai populisti e antieuropeisti una questione che ci appartiene e di cui ci dovremmo occupare, uno sviluppo più legato alla crescita della popolazione e non solo agli interessi degli istituti finanziari. In particolare, l'Italia che, fra i Paesi membri fondatori è stato il Paese che più ha investito nel ritorno di vantaggi e nel sogno europeo di Altiero Spinelli; una cessione di sovranità nazionale in favore di poteri sovranazionali può essere condivisa solo in una cornice di maggiore democrazia delle istituzioni europee, caratterizzate non da apparati burocratici che decidono in base a meccanismi non democratici, ma contrassegnate dalla capacità di valorizzare il rapporto con le istituzioni parlamentari nazionali ed europee, con i corpi intermedi nella società e i cittadini, avendo come riferimento – e concludo – l'accoglimento delle esigenze e delle istanze del corpo elettorale, capace di creare una nuova identità di cittadinanza europea, in grado di superare l'Europa chiusa nella difesa di interessi e istanze esclusivamente intergovernative, o peggio, dei soli interessi egoistici e nazionalistici di alcuni stati membri. Solo coinvolgendo i cittadini si potrà avere secondo noi un'Europa diversa.