Data: 
Lunedì, 15 Febbraio, 2016
Nome: 
Tommaso Currò

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La ringrazio, Presidente, colleghi, l'Europa ha vissuto in questi anni il periodo di recessione più lungo e più duro dagli anni Trenta. 
Questa crisi di natura finanziaria, innescata nel 2007 dal fallimento delle maggiori banche di investimento americane, ha chiaramente colpito il mondo economico e produttivo determinando, conseguentemente, una lunga scia di fallimenti di molte imprese. 
Questa condizione di crisi diffusa ha messo a dura prova il sistema bancario europeo e in Italia l'ammontare delle sofferenze bancarie ha sfiorato cifre intorno ai 200 miliardi di euro. 
Va subito sottolineato che molti Paesi europei, tra cui Spagna, Irlanda e Grecia, hanno destinato ingenti risorse pubbliche a sostegno dei propri sistemi bancari; la Germania, che spesso prendiamo a riferimento delle nostre performances economiche, ha erogato aiuti per un importo complessivo pari a circa l'8 per cento del suo PIL nel periodo 2008-2014. 
L'Italia, nonostante l'evoluzione sfavorevole della propria economia, ha, viceversa, registrato un flusso pur contenuto di ricavi fiscali positivi sotto forma di interessi e commissioni sugli strumenti acquistati pari a circa 1,5 miliardi di euro a fronte di un impegno degli aiuti sul debito molto modesto, pari a 0,1 punti percentuali di PIL. 
Il nostro sistema ha, quindi, reagito alla crisi senza sostanziale aiuto pubblico e senza necessità di intaccare il debito. È proprio il legame tra il debito sovrano e il debito bancario insoluto che crea quel circolo vizioso nell'intervento dello Stato, aggravato per il fatto che molte banche sono, a loro volta, detentrici di titoli del debito pubblico e per bloccare questo meccanismo e per frenare gli inevitabili effetti del moral hazard, acuiti dal perdurare della crisi, è prevalsa l'idea, in Europa e negli Stati Uniti, di coinvolgere gli investitori privati, azionisti, obbligazionisti e grandi correntisti nei processi di risoluzione delle crisi bancarie e non gravare più sui contribuenti e sul debito, il cosiddetto bail-in o salvataggio interno, appunto; se so di avere un paracadute pubblico, infatti, il mio comportamento razionale è quello di assumermi sempre più rischi, privatizzando così i profitti e socializzando le perdite. 
Con il bail-in azionisti, obbligazionisti e clienti, nell'ordine, dovrebbero, invece, essere più sensibili e attenti ad esercitare un controllo informato sull'operato della banca. 
Non è sul piano della ragionevolezza che si può, dunque, articolare una critica tout court all'adozione del nuovo sistema di risoluzione delle crisi, anche perché se oggi il tema di discussione e dibattito ricade sulla tutela dei risparmiatori e dei creditori per i fatti spiacevoli che li hanno visti di recente coinvolti non dobbiamo dimenticare che lo scenario di partenza di qualche anno fa era interamente incentrato sul problema dei debiti sovrani degli Stati; ricorderemo i casi di Cipro, Grecia e il tema dello spread. 
Il bail-in è stata la risposta al problema sorto all'inizio della crisi; è, tuttavia, innegabile che nella pratica attuativa del nuovo sistema di regole sono sorte non poche perplessità, evidenziate anche delle ultime tensioni sui mercati borsistici. L'applicazione del bail-in nel complesso sistema di riforma bancaria riveste un ruolo susseguente all'attivazione di una serie di strumenti di gestione delle crisi. 
Ecco, dunque, che assume fondamentale rilievo l'iter di completamento dell'unione bancaria, con il sistema di garanzia dei depositi in corso di definizione a livello europeo e che insieme al primo pilastro, il meccanismo unico di vigilanza, renderà più solido il sistema finanziario. 
Le nuove regole sulla vigilanza prudenziale hanno obbligato le banche a detenere maggiori scorte di capitale, maggiore liquidità e un grado più basso di leva finanziaria, ponendo vincoli più stringenti alle banche a maggiore rischio sistemico, la cui crisi può minare la stabilità complessiva del sistema finanziario, un ulteriore sforzo richiesto appositamente per attivare quei meccanismi anticiclici a salvaguardia dell'intero sistema economico nelle fasi recessive. 
Da ciò potrà derivare, tuttavia, una compressione della redditività ed un possibile riflesso negativo sull'economia reale. Per questo motivo la transizione deve procedere con gradualità, onde consentire anche processi di riassetto dimensionale ed organizzativo che mettano in moto economie di scala e rendano più efficiente la funzione del credito.