Dichiarazione di voto
Data: 
Giovedì, 28 Settembre, 2017
Nome: 
Marco Causi

 

Grazie, Presidente. Dopo alcuni anni torniamo a parlare di federalismo fiscale: penso che sia una buona notizia e un segnale, insieme a quelli che ci vengono dall'economia con crescita del PIL e dell'occupazione sensibilmente superiori alle attese anche se ancora insufficienti, che stiamo uscendo dalla fase più acuta della peggiore crisi economica che ha travolto l'Italia degli ultimi ottant'anni.

È stata la crisi a fermare la riforma della finanza locale avviata nel 2001 e attuata sul piano normativo nel 2009 con la legge n. 42, un progetto che aveva chiara l'ambizione di valorizzare una delle più importanti ricchezze che l'Italia ha ricevuto dalla sua storia, un asset competitivo eccezionale, che non ha eguali al mondo, cioè un vasto universo di comunità e di istituzioni locali e municipali riconosciuto dai cittadini, con radici storiche fortemente stratificate, base della democrazia repubblicana, front office quotidiano con i problemi reali delle famiglie e delle imprese.

È un progetto - si badi bene - fissato dalle norme costituzionali dentro un quadro di sostenibilità e di solidarietà in cui l'autonomia è strumento per un rapporto più stretto e valutabile tra cittadini e amministratori e lo Stato esercita funzioni di coordinamento e di perequazione. La crisi ha quindi bloccato il processo di riforma; ha prodotto un aumento di centralizzazione; ha chiesto agli enti locali e regionali un contributo importante all'aggiustamento di finanza pubblica: 18 miliardi di riduzione di spesa, secondo la Corte dei conti, fra il 2009 e il 2015. Un'inversione di tendenza è emersa negli ultimi due anni grazie al superamento del Patto di stabilità interno e alla nuova regola di equilibrio di bilancio. Questo ha premesso al comparto un aumento di spesa di 2,5 miliardi di cui 1,5 per investimenti.

Nel tornare a parlare di federalismo fiscale, però, non dobbiamo fare l'errore di ripartire da zero. Come direbbe Massimo Troisi, ripartiamo almeno da tre. Grazie alla legge n. 42 del 2009 e al lavoro fatto negli anni successivi, noi oggi conosciamo costi e fabbisogni standard dei servizi essenziali e delle funzioni fondamentali delle prestazioni erogate da regioni e da comuni, coprendo un vasto campo di welfare pubblico.

Siamo in grado di misurare le capacità fiscali standard dei territori e queste conoscenze hanno permesso di mettere in campo strumenti di coordinamento della finanza pubblica multilivello, come, ad esempio, i piani di rientro che hanno funzionato. Basti pensare al caso della Sicilia che ha raggiunto l'equilibrio nei conti della sanità ed è uscita dal commissariamento: questo non ha impedito alla Sicilia, mentre riduceva la spesa e faceva risanamento, di scalare la classifica degli indicatori di qualità del Servizio sanitario elaborati dalle agenzie nazionali e di arrivare al settimo posto, un esempio lampante che la qualità di un servizio pubblico non dipende dalla quantità di soldi che vi vengono iniettati, ma dal modo in cui vengono spesi.

Considerato che in Sicilia è in corso una campagna elettorale, permettetemi di dire che il Partito Democratico è orgoglioso e rivendica questo come altri risultati raggiunti dal suo Governo, dal Governo di centrosinistra in quella regione nella legislatura che si sta concludendo.

Insomma, non abbiamo più il Patto di stabilità interno, abbiamo i costi e i fabbisogni standard, abbiamo gli indici di capacità fiscale, abbiamo strumenti di regolazione della finanza pubblica multilivello basati su conoscenze condivise sui dati.

A confronto con dieci anni fa siamo in un mondo diverso: abbiamo fatto passi da gigante anche al paragone con gli altri Paesi europei ed è da qui che dobbiamo ripartire, se le condizioni macrofinanziarie ce lo permetteranno, e non dagli slogan che ci ributtato indietro nel tempo. Ad esempio, non è vero che il Fondo di solidarietà comunale abbia penalizzato il sud. La verità è che l'introduzione dei fabbisogni standard ha fatto emergere forti distanze fra livelli di servizio e fabbisogni soprattutto nelle città più grandi, sia del nord che del sud. Ha messo insomma in evidenza che la spesa storica è lontana dal soddisfare i fabbisogni nelle aree urbane più grandi come Milano, come Roma, come Napoli, dove le amministrazioni civiche devono sostenere i costi di servizi che in città più piccole non esistono, ad esempio il trasporto su ferro.

Mi riferisco qui alle analisi dell'iFEL e dell'Ufficio parlamentare di bilancio, che mostrano con chiarezza come uno dei temi prioritari sia quello delle grandi aree urbane che oggi chiamiamo città metropolitane. Non mi è chiaro se la sindaca pro tempore ne sia a conoscenza, ma Roma è stata beneficiata dai nuovi meccanismi di perequazione sia nel 2016 sia nel 2017.

È vero poi che nell'impianto della legge n. 42 del 2009 ci sono alcuni elementi su cui il lavoro di attuazione non è mai cominciato, complice la crisi, e che dovrebbero invece rappresentare la strada maestra per il completamento della riforma: la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni nei settori della sanità e soprattutto nei settori diversi dalla sanità: assistenza, servizi materno-infantili; l'utilizzo degli obiettivi intermedi di servizio che il Vice Ministro Morando oggi ci propone di chiamare “livelli qualitativi di servizio” - noi accettiamo tale nuova formulazione, ma è una variabile-ponte rispetto ai LEP, anche in relazione ovviamente ai vincoli di bilancio -; la ricognizione quantitativa è metodologicamente controllata dei fabbisogni infrastrutturali, perché il processo di perequazione infrastrutturale non è mai cominciato; la trasformazione del Fondo di solidarietà comunale nei termini previsti dalla legge, cioè in un fondo verticale, che perequa con risorse centrali e non solo, come oggi, con trasferimenti orizzontali tra gli enti.

Anche i referendum di Lombardia e Veneto ci riportano indietro nel tempo: disconoscono la legge n. 42, che contiene tutti gli elementi normativi prima descritti e porta la firma di Roberto Calderoli, e strizzano l'occhio alla proposta avanzata dalla Lega e dal PDL nel 2013 di trattenere il 75 per cento dei tributi nei territori dove risiedono i contribuenti che li hanno generati. Si tratta di una proposta incostituzionale, dannosa per la finanza pubblica italiana e pericolosa sul piano economico e politico anche per i cittadini delle regioni del nord che si vorrebbero beneficiare.

So bene che i referendum fanno riferimento all'autonomia differenziata prevista dall'articolo 116, terzo comma, della Costituzione, ma il messaggio politico è sulle tasse e ciò rende queste consultazioni, a mio modo di vedere, sostanzialmente inutili.

I costituenti lo sapevano bene e nell'articolo 75 dalla nostra Carta vietarono referendum su leggi tributarie e di bilancio.

Alla domanda “vuoi pagare meno tasse e avere più servizi”, la risposta è ovvia. Insomma, questi referendum sono soldi e risorse sprecate.

Il Governo di Madrid ha puntato proprio su questo, sul danno erariale, per costruire un quadro giuridico che giustificasse il durissimo attacco alla Generalitat della Catalogna. Io non arrivo ad invocare questa strada, ma sono convinto che siano davvero soldi buttati; e soprattutto risorse sprecate: risorse di discussione pubblica, di attenzione dei cittadini, di discussione sui media, che potrebbero essere meglio utilizzate per parlare di cosa sono i governi di prossimità, come contribuiscono alla coesione sociale, come potrebbero migliorare le loro performance.

L'ultima cosa che possiamo permetterci è di litigare fra di noi, di mettere a rischio la coesione nazionale, in uno scenario mondiale ed europeo già colmo di rischi e di pericoli. Con tutta franchezza, io in questo momento storico non sono solidale con gli indipendentisti catalani, mi sembra, politicamente, una battaglia davvero stupida.

Nella legge n. 42 del 2009 e nelle norme successive, così come nel terzo comma dell'articolo 116 della Costituzione, l'Italia ha elaborato e messo a disposizione istituti avanzati e sostenibili per un federalismo che sia efficiente e solidale. È da lì che bisogna ripartire, lavorando per completare i tasselli ancora mancanti.

Stiamo facendo accademia, Presidente? Stiamo trasformando l'Aula di Montecitorio in una sala convegni? Io non credo. Certamente non stiamo discutendo di azioni, provvedimenti e obiettivi a breve termine, ma abbiamo il dovere, mentre usciamo dalla crisi, di riprendere il filo del ragionamento del lavoro per costruire rapporti fra Stato ed enti locali e regionali che siano sempre più avanzati e sappiano migliorare la qualità dei servizi per i cittadini (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).