Discussione generale
Data: 
Lunedì, 28 Luglio, 2014
Nome: 
Davide Mattiello

A.C. 559-A

Signor Presidente, l'approvazione del nuovo reato di depistaggio ed inquinamento processuale rappresenta una presa d'atto doverosa e dolorosa. La democrazia nel nostro Paese, infatti, è stata ed è spesso avvelenata da chi ostacola la ricerca della verità, almeno di quella particolare verità che è quella giudiziaria. 
È una presa d'atto dolorosa, perché ricorrere all'ennesima nuova norma penale rappresenta pur sempre un fallimento per chi, come me, ha un'idea di Stato fondata sulla libertà della persona e sulla presunzione di onestà. 
Non è con il diritto penale che si monda la società. 
Quando si arriva a dover intervenire attraverso la sanzione penale di una condotta tanto radicata e diffusa come quella della quale trattiamo oggi, si sta con ciò stesso denunciando una grave deficienza democratica sul piano culturale. 
Il diritto penale non basterà mai, se non si agisce efficacemente la leva culturale, attraverso esempi credibili di condotte virtuose: questa responsabilità sta in capo prima di tutto a chi rappresenta le istituzioni. 
Ciò posto, sanzionare in maniera specifica e severa la condotta di chi impedisce, ostacola, svia indagini o un processo penale, farlo in maniera tanto più grave se l'autore della condotta è un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio è un atto dovuto alle innumerevoli vittime di questa forma subdola di violenza. 
Queste condotte, infatti, sono particolarmente odiose, perché sabotano il rapporto fondamentale che tiene insieme uno Stato, il rapporto di fiducia tra cittadino ed istituzioni. Queste condotte colpiscono il rapporto fiduciario proprio nel momento di massima fragilità del cittadino, quando cioè il cittadino è esposto al bisogno, alla paura, al pericolo, all'angoscia e si appoggia allo Stato, vi si affida, come farebbe il malato con il medico. 
Sono condotte che avvelenano l'intera convivenza civile e dunque facciamo bene a colpirle. 
La mia esperienza mi porta a sottolineare alcune specifiche valenze di questa nuova fattispecie, consapevole che, come ha già fatto il relatore, onorevole Verini, e come farà certamente il proponente, onorevole Bolognesi, altre ed ugualmente importanti valenze devono essere tenute presenti. 
Il nuovo articolo 375 prevede di colpire, tra le altre, la condotta di chi immuti artificiosamente lo stato delle persone connesse al reato. A cosa dobbiamo pensare leggendo questa frase ? Dobbiamo pensare, tra le altre, alla possibilità che qualcuno avvicini un detenuto, magari un detenuto al 41-bis, e gli suggerisca quale parte recitare in commedia. 
Dobbiamo pensare, tra le altre, alla possibilità che qualcuno avvicini un collaboratore di giustizia e gli suggerisca quale parte recitare. 
Ecco perché il Parlamento deve mettere costantemente grande attenzione nel vigilare su quelle delicate articolazioni dello Stato che congiungono i servizi di informazione, come l'AISI, l'amministrazione penitenziaria, il DAP, la magistratura. Le articolazioni sono necessarie in qualunque corpo, pena la paralisi, e, quindi, non mi scandalizza che esistano dei protocolli di collaborazione tra AISI e DAP. Ma sono altresì consapevole che è proprio nelle articolazioni che si concentra il potere più grande. Anche per questo, la drammatica e complessa vicenda del collaboratore Scarantino va esplorata in tutte le sue sfaccettature. Destino amaro quello di Scarantino, ritenuto credibile quando ricostruisce l'organizzazione dell'attentato in via D'Amelio contribuendo in maniera decisiva a far condannare all'ergastolo degli innocenti, soltanto recentemente scarcerati, e non credibile quando, già nel 1995, poi nel 1998, ritratta tutta la confessione, denunciando le violenze subite. Così come va esplorata la vicenda del detenuto Alberto Lorusso che per un breve quanto turbolento periodo tra l'aprile e il dicembre 2013 ha fatto compagnia al boss Totò Riina nel carcere di Opera. Un periodo caratterizzato da una sorprendente loquacità del Riina che, per fare un esempio, il 31 maggio 2013 sente l'irrefrenabile bisogno di confidarsi con gli agenti della penitenziaria che lo stanno portando in udienza, ammettendo, per la prima volta, la trattativa con lo Stato, per poi procedere, a getto continuo, con insinuazioni più o meno minatorie all'indirizzo del direttore del carcere di Opera, il dottor Siciliano, e dei PM palermitani, primo tra tutti il dottor Di Matteo, cui arrivò a pronosticare la fine del tonno. Un vero e proprio fuoco d'artificio. Così come, per rimanere in tema, va esplorata la vicenda del collaboratore Nino Lo Giudice, detto «o’ nano», che irrompe sulla scena per «mascariare» a puntino due impegnati e stimati magistrati della DNA, il dottor Gianfranco Donadio e il dottor Alberto Cisterna. Sullo sfondo di questa scena si intravede un altro detenuto eccellente al 41-bis che, forse, sarebbe potuto diventare un collaboratore di giustizia determinante, ma che, purtroppo, le inopinate e infauste cadute in cella e il repentino peggioramento delle condizioni di salute hanno ormai relegato in una condizione di incapacità fisica e psichica irrimediabile. 
Tornando al testo dell'articolo 375 del codice penale, si legge: «distrugge, sopprime, occulta o rende comunque inservibile in tutto o in parte un documento». Come non pensare al 5 agosto 1989, quando qualcuno sparò all'agente Nino Agostino e a sua moglie Ida, uccidendoli. Come non pensare a quelle ore concitate che seguirono il duplice omicidio, ore nelle quali venne portato via letteralmente un «frego» di carte dall'armadio di Agostino, carte mai più ritrovate. Carte su cui Agostino aveva appuntato nomi e relazioni. Un lavoro, quello di Agostino, legato in qualche modo a quello dell'agente Piazza, anch'egli ucciso pochi mesi dopo, e al fallito attentato contro Falcone all'Addaura il 20 giugno dello stesso anno. Un lavoro prezioso, visto che Falcone, presentatosi al funerale di Agostino, disse: «A questo ragazzo devo la mia vita». Quel «frego» di carte sarebbe stato portato via da un agente di polizia intervenuto sul posto, successivamente scoperto e processato, ma per il quale nel febbraio del 2014 la procura di Palermo ha dovuto chiedere l'archiviazione per intervenuta prescrizione. Sulla scena di quell'omicidio, come in altre circostanze peraltro, fa la sua comparsa un personaggio inquietante, noto alle cronache come «faccia di mostro». Un agente dei servizi ? Non si sa. Quel che sappiamo è che proprio negli ultimi mesi è emerso un possibile collegamento tra le indagini di almeno quattro procure, le dichiarazioni di un collaboratore di giustizia della famiglia Galatolo e un uomo che risponderebbe alle caratteristiche di «faccia di mostro». Stupisce allora francamente e preoccupa, alla luce di tutto ciò, che non risultino provvedimenti di custodia volti ad evitare che nelle more costui decida di rendersi irreperibile. Ancora per la serie «carte che scompaiono», come non pensare all'omicidio del procuratore della Repubblica di Torino Bruno Caccia, ucciso il 26 settembre 1983. La sentenza, che non ha peraltro individuato gli esecutori materiali, parla di una ’ndrangheta torinese desiderosa di mettersi in mostra con i mafiosi operanti in città, togliendo di mezzo un giudice integerrimo e quindi scomodo. Soltanto un omicidio dimostrativo insomma. 
Eppure, il tentativo di far ricadere la colpa dell'omicidio del giudice sulle BR fu sofisticato e, in apparenza, incongruo, purtroppo derubricato, salvo poi tornare fuori anni dopo anche in questo caso grazie ad alcune intercettazioni telefoniche nelle quali un magistrato, allora indagato, fece riferimento al testo della falsa rivendicazione delle BR trovato niente po’ po’ di meno che, a casa di Pio Cattafi, durante una perquisizione, fatto che, se accertato, metterebbe in tutt'altra evidenza lo scenario in cui è maturato l'omicidio di Bruno Caccia. Che fine ha fatto il materiale sequestrato durante quella perquisizione ? 
Ma torniamo a ciò che riguarda l'articolo 375, dove si legge ancora: «forma (...) artificiosamente (...) gli oggetti indicati nel precedente numero», il numero 2, cioè oggetti da impiegare come elementi di prova. Come non pensare alle false bottiglie Molotov fatte rinvenire nella Diaz di Genova nella notte del 21 luglio 2001 ? La Cassazione, con la sentenza 5 luglio 2012, ha messo un punto giudiziario su questa drammatica vicenda, rendendo definitive le 25 condanne di esponenti anche di vertice della polizia di Stato. Una sentenza che infine ha dato ragione al lavoro lacerante, spesso osteggiato ma rigoroso e determinato di magistrati come il dottore Enrico Zucca, cui credo debba andare la nostra più sentita gratitudine. Va detto che questa sentenza non è riuscita a ricucire lo strappo provocato da tanta spietata violenza. Le bottiglie Molotov portate di soppiatto all'interno della scuola sono sintomo di quello stesso malinteso spirito di corpo che poco ha a che fare con la lealtà istituzionale e che ha determinato la sostanziale impunità di condannati. Ecco che, analizzando questi comportamenti, ci ritroviamo immersi in quella miscela esplosiva fatta, da un lato, di appartenenza all'apparato che esige fedeltà e promette protezione e, dall'altro, di forte stress, certo, generato dal pericolo e dal bisogno di essere tempestivi e risolutivi. Quella miscela che spesso viene sublimata nel concetto di ragion di Stato, concetto necessario e allo stesso tempo rischioso. Proprio dentro quella miscela, come agente dissuasore, gettiamo oggi il nuovo reato di depistaggio così come spero presto getteremo il nuovo reato di tortura perché non accada mai più che qualcuno pensi di difendere l'autorità degli appartenenti di polizia con l'impunità che è errore. Non è l'impunità che alimenta l'autorità. L'impunità è una bestemmia in una democrazia fondata sul principio di uguaglianza davanti alla legge sancito dalla nostra Costituzione e i primi a saperlo, che sono anche i primi a patirlo, sono proprio gli operatori e le operatrici di polizia che quotidianamente con sacrifici personali, dotazioni spesso inadeguate, professionalità e dedizione fanno il proprio dovere come quelli la cui memoria siamo andati ad onorare dieci giorni fa nel sacrario presso la scuola di alta formazione della polizia, morti con Falcone e Borsellino. Bene poi che l'articolo 375 non prevede una condotta, come si suol dire propria, mentre propria è l'aggravante perché l'attività di depistaggio non necessariamente è posta in essere da un pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio. Penso ai giornali che, all'indomani dell'omicidio di don Beppe Diana, 19 luglio 1994, accreditarono strumentalmente la pista passionale, lasciando intendere che don Diana fosse stato ucciso perché gli piacevano le donne. Spesso infatti il depistaggio è attività sintomatica di alleanze ignobili tra organizzazioni criminali in senso stretto e quell'area vasta composta da esponenti delle istituzioni, dei partiti e dell'economia. Detto altrimenti il depistaggio è semplicemente l'intera storia del rapporto non risolto tra mafia e Stato. Quel rapporto che passa attraverso l'omicidio di Peppino Impastato, di Mauro Rostagno, di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Danilo Dolci, militante non violento, maestro, italiano di cerniera e di confini, disse che la prima Repubblica nacque con la strage di Portella della Ginestra il 1o maggio 1947 e che la cosiddetta seconda Repubblica nacque con la strage di Capaci il 23 maggio del 1992. In questo modo di ragionare, ahinoi, con l'espressione «nascere» si deve intendere quel momento tragico e immancabile nel quale i poteri reali che si agitano sul fondo del barile trovano una temporanea composizione, eliminando di comune accordo i nemici pericolosi e spartendosi in maniera soddisfacente le risorse più preziose a cominciare dallo Stato. 
Portella della Ginestra e Capaci, insieme a via D'Amelio e alle bombe del 1993, sono intrise di depistaggi e sono intrise di quegli indicibili accordi evocati dal compianto consigliere D'Ambrosio. Sarebbe davvero bello e giusto poter mettere in un cassetto questo nuovo reato, contando piuttosto sull'onesta collaborazione di chi sa le cose. 
È davvero giunto il tempo che si converta alla lealtà democratica chi ha fin qui vissuto di altre, «maledette» lealtà. In attesa che questo avvenga, attrezziamoci comunque e prudentemente con questo nuovo strumento (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico e Scelta Civica per l'Italia).