Dichiarazione di voto finale
Data: 
Giovedì, 2 Marzo, 2023
Nome: 
Andrea Orlando

A.C. 908

Grazie, signor Presidente. Collega Barabotti, nessuna superbia, nessuna protervia: la vicenda Ilva si aggroviglia da molto tempo. Sono passati undici anni, da quando è stata commissariata per ragioni ambientali, dopo una gestione dissennata sotto questo profilo che ha prodotto la devastazione, sulla quale si sono giustamente misurati i colleghi intervenuti prima di me. La vicenda Ilva si è aggravata con l'aumento dei costi dell'energia e non si possono davvero attribuire responsabilità per queste circostanze al Governo in carica. Questo Governo, però, si è trovato sul tavolo, dal giorno del suo insediamento, un quadro di criticità, da un lato, e qualcosa come più di un miliardo, dall'altro. Le criticità sono note e collegate tra loro: una produzione che in questi due anni è molto al di sotto di ogni previsione, anche di quelle che scontano i ritardi nella realizzazione dei piani industriale e ambientale; nessun serio progresso sul fronte ambientale; nessuna - e questo è il paradosso - delle previsioni annunciate dall'azienda sono state ad oggi rispettate. La produzione non ha mai superato i 4,5 milioni di tonnellate a fronte dei 6 potenziali, neanche negli anni più favorevoli per il mercato siderurgico. Nel 2021, la produzione nazionale è tornata sui livelli massimi degli ultimi dieci anni, con dei margini di profitto assolutamente favorevoli. Nel 2022, nonostante gli impegni assunti di salire ad oltre 5 milioni di tonnellate, la produzione si è fermata a 3 tonnellate, aumentando il ricorso alla cassa integrazione. Un ritardo negli investimenti di manutenzione e di rinnovamento degli impianti, in particolare il rifacimento dell'altoforno 5, rende lo stabilimento meno sicuro e incerta la previsione, ancora una volta, resa dall'amministratore delegato nel tavolo al Ministero del 19 gennaio. Una situazione finanziaria gravissima, dovuta sia alla bassa produzione - in un periodo nel quale ricordo ancora che il prezzo dell'acciaio ha raggiunto livelli record - sia alla decisione di ArcelorMittal di deconsolidare la partecipazione ad Acciaierie d'Italia rispetto alla holding, privando nei fatti le attività di Acciaierie delle garanzie creditizie e costringendo così lo Stato a far fronte, seppur parzialmente, con una garanzia SACE. È uno stato di prostrazione di tutti gli stabilimenti del gruppo, anche di quelli che in questi anni avrebbero potuto vivere di vita autonoma, come Novi Ligure e Genova. Nello stabilimento di Genova, la mancata realizzazione degli investimenti previsti ha penalizzato la produzione e la sicurezza, nonostante la domanda in crescita della latta che viene dal nostro sistema produttivo. Una situazione vicino al collasso nel rapporto con i fornitori, spesso al di là di quanto le condizioni finanziarie stesse giustificassero. Si pensi alla vicenda Sanac, l'azienda del gruppo Ilva rimasta sotto il controllo dei commissari, che ha sempre prodotto refrattari per Taranto, con la quale la governance di Acciaierie ha aperto un conflitto, che rischia di portare al collasso un'altra importante realtà produttiva ed occupazionale. Oppure si pensi alla situazione dell'indotto tarantino, composto da oltre 145 imprese appaltatrici e 2.000 addetti, nel dicembre dello scorso anno oggetto di un atto improvviso ed unilaterale di interruzione delle attività dello stesso stabilimento. Il livello ha toccato il minimo storico nelle relazioni industriali, con episodi di provocazione assolutamente gratuita. Ricordiamo il licenziamento di un dipendente, poi reintegrato dalla magistratura, per un post su Facebook. L'assenza di un sistema di relazioni industriali ha impedito che in questi anni si raggiungessero accordi sulla gestione della cassa integrazione, con un danno grave per i lavoratori coinvolti.

E ultima, ma non ultima per importanza, è l'assenza pressoché totale di interlocuzione con le istituzioni locali, in realtà, nelle quali le relazioni con il territorio - e non credo ci sia bisogno di spiegare il perché - costituiscono non solo un valore sociale, ma anche un vero e proprio fattore di competitività, tanto più per stabilimenti che hanno segnato il destino dei tessuti urbani nei quali sono inseriti, Taranto su tutti, ma pensiamo anche a Genova, a Cornigliano.

Questi elementi giustificano ampiamente una domanda, un sospetto, qualcosa più di un sospetto: in un contesto obiettivamente difficile, come notato da diversi osservatori, ArcelorMittal ha dato più volte l'impressione di fare tutto ciò che poteva per peggiorare la situazione. La multinazionale franco-indiana vuole e, forse, ha mai voluto davvero il rilancio di Ilva? Non è un processo alle intenzioni, perché, mentre è perdurata l'agonia di Taranto e di Acciaierie d'Italia, la multinazionale ha raggiunto un livello di profitti record per la sua storia imprenditoriale, conquistando gli spazi di mercato proprio laddove Acciaierie d'Italia si è dovuta, per necessità, ritirare.

Un miliardo, certo, non basta da solo a garantire il rilancio, però poteva servire - e questo era il senso degli interventi del Governo Draghi, voluti anche, peraltro, dal Ministro Giorgetti - per costringere il partner privato a scoprire definitivamente le carte. E questo decreto fallisce proprio questo obiettivo. I difensori di ArcelorMittal giustificano il progressivo disimpegno con l'abolizione del cosiddetto scudo penale. Ci sarebbe molto da discutere - e io non ho il tempo - se questa sia una ragione o un alibi, fatto sta che il Governo mette sul tavolo sia i soldi sia lo scudo, e che scudo. Non ha niente da dire la Ministra Calderone rispetto al fatto che lo scudo rischia di essere un'esimente anche per responsabilità legate alla sicurezza sul lavoro?

In cambio, è giusto chiedersi, il Governo ha avuto la garanzia che la realizzazione dei piani, sia quello ambientale sia quello industriale, riprenderà? E con quali tempi? Avete ottenuto, il Governo ha ottenuto garanzie su un cambio di atteggiamento verso i fornitori? Ci sarà una collaborazione nel risolvere la vertenza Sanac? La governance vi ha chiarito che intende fare riguardo al rilancio degli stabilimenti che potrebbero avere una propria autonomia funzionale? Ci sono stati impegni sul ripristino di normali relazioni industriali e sindacali? E, soprattutto, al di là delle buone intenzioni del Ministro competente, che ha accennato recentemente ad un nuovo accordo di programma, ne abbiamo sentito parlare anche questa mattina, ci sono garanzie riguardo al ripristino di rapporti con la città più ferita, Taranto, e con le istituzioni locali in generale?

La risposta a tutte queste domande è un sonoro “no”. E voi avete detto “no”, respingendo gli emendamenti che avevamo proposto per mettere nero su bianco impegni in questo senso, avete detto “no” al Senato, avete detto “no” in Commissione e, poi, con una incomprensibile questione di fiducia, avete detto “no” in quest'Aula, e tutto ciò anche se non ci sono scadenze temporali.

Invitalia, infatti, può disporre della liquidità dal momento in cui il decreto è stato approvato. Non c'è alcun segno di ostruzionismo, gli emendamenti erano poche decine, eppure, in una corposa mozione approvata al Senato da Fratelli d'Italia, in occasione dell'intervento su Ilva del Governo Draghi, si chiedeva di adottare contestualmente un nuovo piano di azione aggiornato alle diverse circostanze e con una visione di lungo periodo rivolta ai prossimi decenni. Cioè, voi avete negato quel confronto sulla prospettiva che avevate conquistato dall'opposizione. E non è una questione di galateo istituzionale, perché quell'esigenza che i colleghi di Fratelli d'Italia giustamente ponevano non solo c'è ancora, ma è diventata ancora più urgente.

Quella dell'acciaio è diventata, se è possibile, in questi mesi, una filiera ancora più strategica e voi sapete che da ciò che si decide su Taranto dipende molto di ciò che avverrà a Terni, a Piombino, in tutto il comparto, fortemente colpito dai costi dell'energia, lungo la filiera dell'automotive, fino alla meccanica, alla cantieristica.

Ebbene, sull'acciaio, ma non solo sull'acciaio, alla luce dell'aumento del costo strutturale dell'energia, di quello dei noli marittimi, di fronte ad una guerra commerciale che non accenna a placarsi o ai piani protezionistici di alcuni Paesi concorrenti, come gli Stati Uniti e la Germania, e, in conseguenza, dei ritardi nell'attuazione del PNRR, che fa l'Italia? Su quale piattaforma porta avanti una battaglia per nuovi strumenti in Europa, per garantire gli approvvigionamenti, per sostenere la transizione ambientale, per conquistare produzione mentre si organizzano le filiere a livello globale?

Questa sarebbe la discussione da fare - concludo, Presidente - e, per la verità, il Ministro Urso è parso consapevole di questo, lo ha detto in alcune interviste, nelle audizioni in Commissione. E quale è la conseguenza? Qualche dichiarazione propagandistica contro il passaggio all'elettrico - ininfluente, peraltro, nei rapporti con Bruxelles -, qualche lamentela contro i piani nazionali che alterano le regole della concorrenza, nessuna misura nella legge di bilancio e, poi, la fuga di oggi, perché questa è una fuga. Noi chiediamo, invece, al Governo un confronto e, magari, anche un approdo unitario per le politiche industriali necessarie al Paese, da costruire, prima di tutto, con le forze sociali. Un lavoro da fare, però, con un metodo e con una sostanza che sono diametralmente opposti a quelli che hanno connotato questo provvedimento.

 Concludo, Presidente. Il Governo aveva le risorse per far cambiare la strada di Ilva o, almeno, condizionare e correggere le disfunzioni più macroscopiche, anche mettendo in conto un cambio di governance. Sono state usate per pagare le bollette e così comprare un po' di tempo, ma il tempo non utilizzato per costruire strategie è tempo sprecato. Noi crediamo, come i colleghi di Fratelli d'Italia qualche mese fa, che questo sia il tempo di mettere in campo nuove politiche industriali e per questo diciamo “no” ad un provvedimento che suona, prima di tutto, come una capitolazione della politica, oltre che come un'occasione sprecata.