Data: 
Lunedì, 15 Luglio, 2019
Nome: 
Filippo Sensi

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Grazie, Presidente. Sottosegretario, onorevoli colleghi, metto subito le mani avanti - confesso - parlerò di Roma come fosse la forma urbis, la pianta di una riflessione più generale e universale sul degrado e recupero, sostenibilità e sviluppo, rigenerazione e marginalizzazione. Parlo con senso di urgenza se penso che a meno di dieci chilometri da qui, a Primavalle, oggi si è acceso un altro rogo di disperazione che è stato cercato, voluto, istruito, esibito. C'è stato un tempo nel quale centro e periferia si potevano ancora definire l'uno in contrapposizione all'altra: concetti relazionali ma non relativi. La periferia era ciò che si oppone al centro: area distante da e remota; negazione del centro e del suo ordine radiale, della sua organizzazione e perfino della sua forza di legge e di gravità. Come se in principio fosse stato il centro e la periferia il suo calo di tensione, la sua perdita di fuoco, il suo sfilacciamento e slabbramento, la sua progressiva sparizione. Era un tempo di compartimenti stagni, di confini ben tracciati, di tassonomie definite ed universalmente accettate, subite magari ma condivise. Oggi - non so esattamente datare da quando sia iniziato quest'oggi - viviamo piuttosto in un continuum che rende impossibile distinguere questi attraversamenti e che anzi li sfalda, li complica e li innervosisce rendendoli non solo difficilmente rilevabili ma addirittura inutili. Dove inizia oggi la periferia delle nostre città? Dove finisce il loro centro dal momento che il loro ordine, l'ordine del e dal centro si è fatto impossibile? Dove cade oggi - dico oggi, adesso - il centro di questa città? In quest'Aula semideserta, svuotata ogni giorno di più di senso e dignità da un disegno preciso di questa maggioranza o a Cardinal Capranica?

A Roma, città che ci ospita, perché a Roma non ci vivi, ti ospita, città policentrica e diffusa, multiverso, nessuno sa più veramente se il centro coincida con il suo centro storico o con il limes del raccordo anulare, estrema illusione di una modernità che è ancora definitiva e distingueva haussmaniana dentro e fuori dal raccordo. E questo può dirsi forse delle altre città globali dove sempre più si addossa e concentra appunto la vita di milioni di persone, come è stato ricordato da chi mi ha preceduto. Centro e periferia non definiscono più due luoghi divisi da una distanza, piuttosto attraversati, tagliati da questa distanza, forme dell'abitare quindi dell'identità, dell'anima delle città, periferia che abita e invade, e “gentrifica” il centro, lo cortocircuita, lo scassa, lo occupa. Nelle diverse città che Roma è, l'urbs, sembra quasi essersi prodotto un rovesciamento, con la periferia a segnare il punto di una identità forte che il centro, buono per ruderi, negozi e turisti, non riesce più a trattenere se non come una diafana Morgana da siti di prenotazioni alberghiere. “Qui ci manca tutto, non ci serve niente” recita il cartiglio del benvenuto a Rebibbia disegnato da Zerocalcare, come a dire il rovesciamento non solo si è prodotto ma la sua sequenza si è conclusa. Il mio problema non è più di non essere te che non mi servi più; l'ordine simbolico è stato capovolto: il centro è periferico rispetto a dove si vive e odia e ama e lotta e resiste, luogo reso remoto e inessenziale, un altrove, un nowhere, non più orizzonte e meta. E però ci manca tutto, ammonisce Zerocalcare, come se la periferia, le iper-periferie come usa adesso, restasse abitata e agitata da un'assenza non più di un centro ma di sé, una identità cava, vuota, bucata, uno sprofondo, come diciamo a Roma letterale, un malaise che non spinge più fuori ma, al contrario, ingoia, paralizza, blocca, divora, collassa, centripeta e centrifuga allo stesso tempo e che si barrica, come rivendicava oggi uno striscione di fronte ai poliziotti in tenuta antisommossa, si riserra, pensa di bastarsi, pensa che basta. Mi chiedo - la mia è semplicemente una domanda e sappiamo bene tutti - e una volta sgomberato? Una volta dispersi per la città 400 disperati senza soluzioni abitative, senza un tetto dove andare, senza reti di assistenza, quale legalità avremo ripristinato? Quale diritto avremo difeso? Quale spazio avremo conteso al degrado e all'insicurezza? Lo abbiamo visto tante, troppe volte in passato: Torre Maura, Casal Bruciato, riflettori accesi, molto Pavlov, poi chissà. Come è andata a finire? Che non è cambiato niente; che la disperazione si è raggrumata dov'era o poco più in là; che l'ostilità si è fatta sorda fino alla prossima volta. C'è stato un tempo nel quale la distanza chilometrica dal centro definiva un'appartenenza anche politica e su questa inversione sappiamo si gioca gran parte della riflessione che la sinistra - parlo di noi - si ritrova sempre di nuovo a fare su di sé: la sinistra ZTL, la sinistra dei centri storici. Scriveva qualche poco fa con discanto e chiaroveggenza uno che Roma la sa e bene, Walter Tocci: “È ormai di moda dire che bisogna tornare in periferia, spesso lo dicono coloro che non ci sono mai stati. E soprattutto non si dice mai a fare cosa”. È sacrosanto. Linee di faglia che non valgono solo per noi o da noi e non solo sull'asse destra-sinistra; andatevi a vedere la distribuzione territoriale del voto inglese per la Brexit o i colori della cartina della Francia dei gilet gialli o dell'America di Trump quella dei muri e dei centri di detenzione. Penso che noi non siamo soltanto chiamati a sovvertire questa lettura, a falsificarla ma a non crederci, a non concedere un centimetro a questa retorica mascherata da fatto. Scusate se parlo della mia parte politica ma credo rilevi per tutti: per non asseverare una visione della città che non risponde più al suo cambiamento e straniamento, a quella inversione di polarità e ibridazione che non può più essere banalizzata in nuovi stereotipi, in nuovi cluster, in nuovi luoghi comuni. Vogliono spingerci là, recintarci là, in un frame comodo al loro discorso, funzionale alla loro comunicazione, che è popolata di spettri e di paure, di pulsioni e finzioni nelle quali non dobbiamo avere più timore di cadere perché non esistono più e perché sono superate da quella stessa realtà che viene brandita a colpi di sondaggi e scorciatoie, buon senso tanto al chilo e manipolabile per una card su Facebook o una gif da girare su whatsapp. Ecco dai luoghi comuni dobbiamo forse ripartire: da luoghi e spazi contesi alla mancanza di senso e condivisi. Esserci intanto, nonché basti o che esaurisca figurarsi, ma esserci, essere lì, ascoltare, farsi sentire, starci e capire. Ricominciamo da qui: da quel pianificar facendo che è stato il segreto di una lunga durata per tanti anni proprio qui a Roma, da quella partecipazione che oggi offre una tutt'altro che flebile speranza in una città devastata come Roma, devastata da un'amministrazione che l'ha ridotta allo stremo, allo spasimo, ai suoi minimi termini.

E non è un caso che, per paradosso, come fossimo nella Via del Campo di De Andrè, questa città, bombardata dall'incuria e dalla mala gestio, stia conoscendo una sua rinascenza culturale e civile, dal trap al teatro, dalla scrittura al fumetto, e non grazie ma nonostante, non grazie ma nonostante! È la prima volta, a mia memoria, che sono l'indifferenza e l'ignavia a governare questa città e non un disegno, perfino sbagliato, ma che sia un disegno, un'idea, uno straccio di idea. Niente di tutto questo!

E, tuttavia, voglio sperare ancora nel lavoro paziente e strategico che si sta realizzando, per esempio, in terzo municipio, grande come una città e che un tempo si sarebbe detto laboratorio di una città possibile e non provvisoria, inclusiva e non densa, intensa e non esausta o satura, nelle proposte su cui sta lavorando il Forum disuguaglianze diversità, sui temi della giustizia sociale e della cittadinanza, su esperienze di ricuciture e rammendo, consapevoli che - e cito ancora Tocci - “si possono fare le piccole cose solo avendo in mente un'ambizione”.

Nel 2015 fu questa consapevolezza culturale e urbanistica, civile prima ancora che economica, a spingere i Governi, dei quali mi onoro di aver fatto parte, a varare e a sostenere un programma straordinario di riqualificazione urbana che questo Esecutivo ha disdetto e vanificato, come ricordava prima l'onorevole Gariglio. E non è solo un peccato per i fondi impegnati, per i progetti già avviati, per il carattere partecipativo del provvedimento: è un peccato per l'idea sottesa che è il vero leitmotiv di questo Governo, quella dello stallo, di un contraddire che non propone, di un'interruzione che frena, blocca e fa arretrare.

La mozione, che i miei colleghi hanno illustrato prima di me, si concentra su strategie di sviluppo mirate ai luoghi e alla questione delle aree interne come snodo decisivo all'incrocio e al limitare dei possibili che ci attendono su ambiente, riqualificazione, valorizzazione, riuso, sicurezza e integrazione, nelle città dove centro e periferia non possono più essere separati come non si riguardassero e come non si richiamassero.

Partire da questa consapevolezza, farci i conti, agire, come ci indicava Alessandro Leogrande - e ho concluso, Presidente - ragionando su Taranto, raccordando il frastagliato, lavorando sulle macerie di una comunità frantumata. E non è ordinaria amministrazione o disbrigo degli affari correnti, ma tutt'altro. Dobbiamo - apro e chiudo le virgolette – “riammagliare la città”, scriveva Leogrande. Quale impegno più alto, più assennato e semplice, più necessario e urgente di questo.