Economia

Misure fragili e spreco di denaro

20/03/2019

REDDITO DI CITTADINANZA E QUOTA 100: SPERPERO DI RISORSE SENZA SOLUZIONI

 

Il cosiddetto Decretone - il DL 4/2019 riguardante il reddito di cittadinanza e quota 100 – è il frutto avvelenato delle mirabolanti promesse elettorali, sia di quelle effettuate durante la campagna elettorale per le politiche, sia di quelle in vista delle europee, nel tentativo di nascondere i disastri in economia con la propaganda.

Di Maio ha dichiarato che con questo decreto si abolisce la povertà (sic); e il suo sodale Salvini aveva promesso di abolire la Legge Fornero.

Non fanno né l’una, né l’altra cosa.

Sperperano soldi dei cittadini creando distorsioni e ingiustizie, fingono di affrontare i problemi creandone di nuovi. Mentre purtroppo l’Italia è entrata in recessione e i due vice premier più che offrire soluzioni sono parte del problema.

 

REDDITO DI CITTADINANZA

Il limite più grave del modello delineato dal Governo riguarda l’uso di uno strumento unico per affrontare due problemi diversi: quello della povertà e quello della disoccupazione.

Il decreto, inoltre, mira a contrastare la povertà ed esclude dall'applicazione del RDC proprio le fasce che si trovano in condizione di maggiore difficoltà, se non di povertà assoluta, come le persone senza fissa dimora, che sono oltre 50 mila, non avendo il Governo declinato il requisito della residenza tenendo conto anche di tale categoria di soggetti. Il provvedimento penalizza inoltre le famiglie, soprattutto quelle con bambini e disabili e tutte le famiglie numerose perché il Reddito di cittadinanza è parametrato soprattutto sui singoli.

 

QUOTA 100

Spacciata come abolizione della legge Fornero in realtà è poco più di una “finestra”. Consente infatti di andare in pensione anticipata a chi ha 62 anni e 38 anni di contributi nel periodo compreso tra il 2019 e il 2021, ma la misura non è solo profondamente iniqua per chi non raggiunge tali requisiti nel triennio considerato, ma anche per le generazioni più giovani sulle quali viene scaricato ulteriore debito pubblico senza alcun intervento messo in campo per garantire loro una pensione.

Inoltre, questa “quota 100” è ritagliata a misura di lavoratore “uomo”, di una grande impresa del nord o dipendente pubblico. Sono queste le due categorie, le due figure tipo, evidentemente in grado di accumulare 38 anni di contributi, in continuità, fino al raggiungimento dei 62 anni di età. Mentre ad essere penalizzate e tagliate fuori dalle nuove regole restano invece le donne, vittime di carriere più accidentate, proprio in virtù del ruolo sociale svolto come madri o nel lavoro di cura in famiglia.

Tutto ciò sarà pagato dagli altri pensionati da 1.500 euro lordi al mese a cui è stata bloccato l’adeguamento dell’assegno mensile all’inflazione e dalle future generazioni che continuano a rimanere le grandi assenti nel dibattito pubblico.

Si è detto inoltre che con i pensionamenti di quota 100 si libereranno posti per i giovani. L’unico effetto che si vedrà nell’immediato saranno i buchi nei vari settori della pubblica amministrazione: nessuna garanzia della cosiddetta “staffetta generazionale”.

Pur condividendo il principio di una maggiore flessibilità in uscita, riteniamo che le maggiori risorse stanziate, visto anche l’impatto sui conti pubblici e sul sistema pensionistico, sarebbero dovute andare ai lavoratori più fragili e deboli. E parliamo dei cosiddetti lavoratori precoci, cioè quei lavoratori che hanno iniziato a lavorare da giovanissimi ma non hanno raggiunto l’età necessaria, e dei lavoratori che svolgono mansioni usuranti, come ad esempio i lavoratori del settore edile. Non è pensabile che a 65 anni ancora si debba salire sui ponteggi perché non si ha spesso – visto il tipo di lavoro – una contribuzione lavorativa continua e a 62 si mandi in pensione chi, grazie al fatto che avrà una pensione alta, potrà permettersi il taglio dell’assegno che “quota 100” comporta.

 

E ALLORA IL PD!

È stato il Partito Democratico ad introdurre il Reddito di inclusione (REI), la prima misura unica nazionale strutturale di contrasto alla povertà mai varata in Italia, e l’abbiamo fatto inserendolo tra i livelli essenziali delle prestazioni, cioè tra quelle che devono essere garantite uniformemente su tutto il territorio nazionale.

Con l’introduzione del REI siamo intervenuti sapendo che la povertà non è legata solo ed esclusivamente all’assenza del lavoro, ma ha un aspetto multidimensionale che va affrontato prioritariamente da chi ha le competenze per farlo.

Contestualmente, abbiamo sempre tenuto presente che per affrontare una delle cause della povertà, occorre continuare a sostenere la ripresa economica e la creazione di posti di lavoro. Questo si è tradotto in una forte spinta sugli investimenti senza che ciò abbia impedito, nel frattempo, di intervenire nei confronti di chi sta male e chiede aiuto.

Proprio per questo abbiamo proposto di rafforzare in maniera consistente il Rei, di aumentare i fondi e di allargare la platea dei beneficiari. Perché il Rei è lo strumento migliore e più efficace. Soltanto il desiderio di smantellare quanto fatto prima, ha spinto la maggioranza a negare l’evidenza.

 

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