Discussione sulle linee generali
Data: 
Lunedì, 25 Gennaio, 2021
Nome: 
Filippo Sensi

A.C. 2757 e Doc. LXXXVII, n. 3

Grazie, Presidente. Sottosegretario, onorevoli deputate e deputati, non è un tempo facile, per intervenire in quest'Aula sulla legge di delegazione europea: opportuno certo, giusto forse, ma non facile. Mi permetta, Presidente, prima di procedere nell'illustrazione, di ricollegarmi a quanto ha detto l'onorevole Battilocchio, una parola, anzi no, un silenzio, per Giulio Regeni: risuoni qui oggi il suo nome, il dolore, la pietà, la giustizia.

Un tempo non facile, come dicevo, Presidente. Intendiamoci, non intendo caricare di un significato altro un disegno di legge che, per sua natura, si limita ad assicurare il periodico adeguamento del nostro ordinamento, mediante il recepimento di direttive e regolamenti europei. Più classico degli omnibus, insomma, come una rapida scorsa all'indice dei 29 articoli di cui si compone è sufficiente a render chiaro a ciascuno di noi, passando dall'energia alla concorrenza, dal commercio sleale al diritto d'autore, dai dispositivi medici al cosiddetto PEEP e, ancora, dalla cybersicurezza all'ambiente e dal settore finanziario alla protezione dei whistleblower. Materie delicate assai, misure i cui effetti hanno un impatto notevole sulla vita dei cittadini, quella professionale, scendendo tuttavia anche nella grana minuta del nostro quotidiano. Basterebbe soltanto pensare, ad esempio, agli effetti liberati dalla normativa sul copyright, al centro di un confronto fondamentale a livello internazionale tra libertà, diritti, tutela e interessi, di cui non sempre ci accorgiamo, quando passiamo i polpastrelli su uno schermo, per scegliere un prodotto, vedere un video, leggere una notizia o ascoltare una canzone.

Ma, una volta denunciata la sensibilità dei provvedimenti armonizzati in questo disegno di legge, dopo un percorso legislativo che è stato già richiamato in tutta la sua complessità, una volta sottolineate le infinite sfere di attenzione e il rispetto che ognuno di essi richiama e articola e arpeggia, una volta infine preso atto della maliziosa ordinarietà con la quale il legislatore acconcia in un “sarchiapone” normativo tali e tante misure, resta, Presidente, l'interrogativo sul momento nel quale questo testo atterra qui a Montecitorio. Su questo momento.

Non un tempo facile, si diceva in esordio, e non dobbiamo neanche dirci perché. In Italia, per quello che si agita in quest'Aula, nei corridoi che la circondano, nei palazzi viciniori, sulla superficie di una bolla che forse scoppierà, forse no, come quella delle nostre case, delle nostre vite, un po' recluse e un po' no, esposte, sospese, come usa dire, interrotte, mai così qui e mai tanto altrove, come abbiamo imparato in quest'anno, solo il primo, forse, di questa vita nuova: l'avremmo immaginata diversa. Siamo così intenti a sperare un domani, a sospirarcelo, che sembriamo dimenticarci di oggi. Anzi, vogliamo dimenticarcelo, rimuoverlo, come un trapassato, come una distanza faticosa, vana, che ci separa da ciò che veramente desideriamo. Già e non ancora, si dice in teologia.

Questo tempo gettato, Presidente, è il tempo al quale ci richiama l'Europa, con le sue istituzioni, con i suoi provvedimenti, come quelli che discutiamo oggi in quest'Aula. Come fossimo passati dal vincolo esterno a un legame ancora più forte e stringente, interiore e intimo, in questo disperato affidamento che oggi facciamo sull'Europa, qualcosa di diverso da un investimento che differisce e semina, con una urgenza che non riguarda più soltanto chi nell'Europa ha sempre creduto, chi come noi l'ha sempre abitata fenomenologicamente come il proprio spazio vitale, ma anche i più diffidenti e ostili - oggi si chiamano i sovranisti mi pare -, quelli che “prima di qua e prima di là”, che “io, io, io!” e che nell'Europa, in quell'altrove, vedevano un insopportabile alibi “ma chi ti conosce, come ti permetti!”. E adesso, invece, sono tutti lì, siamo tutti qui, a invocare la cura e la salvezza come una pioggia, a spartirci l'eredità, a portare ricottine sotto forma di fondi, di strumenti e schemi, che ci consentiranno - consentiranno loro - di poter ancora zufolare il loro inganno, prima di qua e prima di là.

No, non è indifferente questo tempo, il tempo nel quale discutiamo questo provvedimento. E non perché arrivi alla vigilia dell'ennesimo voto vitale - punto interrogativo - per l'esistenza stessa del Governo: mi sembra un film già visto la settimana scorsa. No!

Neanche perché comprando tempo, guadagnandolo, temporeggiando, come si dice, con altri provvedimenti cuscinetto svuota tasche, per allontanare la notte più in là, il Parlamento possa davvero sperare di salvare la pelle. Non è per un atto di autotutela che oggi legiferiamo, fossero anche state queste le nostre intenzioni, perché questo disegno di legge - lo abbiamo detto - è rilevante e ne va, nei suoi effetti più che nelle sue intenzioni, delle vite di ognuno di noi -mi si perdoni l'enfasi -, non meno di un rendiconto sull'anno giudiziario. Non meno!

Ciò che intendo dire è che la crisi che stiamo attraversando, questa cruna, questa ferita, si mostra già oggi qui, su questo provvedimento, Presidente, nella chiarezza dei suoi contorni, perché arriva adesso in questo tempo non facile, perché riguarda l'Europa e il rapporto tra noi e l'Europa, se si potesse ancora mettere un diaframma tra noi e l'Europa. Questo tempo di crisi riguarda esattamente questo rapporto e la nostra stessa capacità di interpretarlo e di renderlo utile per noi e per l'Europa, se vogliamo continuare a mettere questo diaframma in mezzo tra noi e l'Europa. Perché, Presidente, questo stesso provvedimento, questo omnibus, nella sua flessibilità, nel suo carattere giustapposto, combinatorio, compilatorio, forse, qui e ora ci sta indicando un metodo, un sentiero possibile, una via sottintesa per attraversare questa crisi e, forse, chissà, per uscirne vivi. Sappiamo - l'ho detto - quanto del nostro futuro nella sua imminenza si giochi in queste ore e nelle prossime, nel pieno di una crisi pandemica che uccide ancora e ancora e ancora e della difficoltà di vedere chiaro in questo imbrunire, di essere freddi abbastanza da indovinare la sequenza giusta, quella che ci consentirà di agganciare l'aiuto che ci viene dall'Europa, e il monito in esso contenuto, che è quello di invitarci a superare noi stessi, il nostro carattere nazionale, le nostre debolezze storiche, la nostra fragilità strutturale, per diventare finalmente noi stessi.

Cioè quello che vorremmo e dovremmo essere, un po' più prevedibili, un po' meno indolenti, ma non meno creativi, un po' più avveduti, ecco, avveduti e ancora una volta è una questione di tempo, che scorre che rischiamo, di non avere, di non disporne, il tempo come risorsa finita, come l'acqua, l'aria. Questa crisi è anche una crisi di tempo, Presidente ed è per questo che mi auguro che per superarla - come se si potesse davvero mai superare una crisi - si possa provare a prendere in prestito da questo provvedimento, che discutiamo qui ora, la sua forma elastica, l'artigianato che cuce insieme stoffe diverse, l'energia, la finanza, la sanità, il diritto d'autore, come rattoppi, rammendi dicono quelli che parlano bene, come un sugo fatto di avanzi, la sua - posso dirlo? - umiltà, la sua modestia, in una stagione politica inebriata invece di ambizione, di misure visionarie, di riforme storiche, di occasioni che non passano più. Io credo invece, Presidente, e mi avvio a concludere, che più che di sogno e di sguardo per uscire dalla crisi e artigliare l'aiuto europeo, ci sia bisogno, presto certo, rapidamente, intanto di non vendere ciò che non abbiamo, di non millantare credito di competenze e fatica, di virtù mediane, anzi piccole, come diceva il Roberti, feriali. Si sente spesso dire: ma dov'è l'anima di queste misure? Manca un disegno complessivo, il respiro. Io le dico no, Presidente; ai piani che dovremmo sottoporre all'Europa, più che la magniloquenza, non dovrebbe mai mancare la consapevolezza del limite, non lo slancio, ma la pedante misura di ciò che va fatto, non l'urgenza, ma la premura, non l'eroismo, ma il contegno, non la retorica, ma la matematica, la sua onestà, quella che provvedimenti cadetti come quello di oggi provano a preservare, senza dirsi altro da sé, senza darci un tono di cui non abbiamo bisogno, perché non abbiamo tempo. “Il poeta dorme, questa è l'ora del giardiniere” ha scritto di recente in un suo addio Cees Nooteboom. Il giardiniere, con il suo mestiere, con la grazia dell'attesa, i gesti misurati, la volontà di proteggere e di farsi spazio tra i rovesci del tempo e le male erbe, con la sua sana risolutezza di fronte alla caparbietà delle stagioni, con l'esperienza di aria e la sua disadorna morigeratezza, l'esercizio di sé e la consapevolezza del confine, la discrezione, Presidente, che è qualità di discernere cosa giovi e cosa no. Questo ci insegna oggi la legge di delegazione, in questo momento non facile, un provvedimento goffo e incompiuto, come l'Europa che siamo, ci insegna la nostra finitezza, i nostri limiti, la nostra temperanza, la premura di ricomporre, di mettere assieme, di connect che siamo chiamati ad avere, non la passione oggi, ma la pazienza. E sfidando la sua di pazienza, Presidente, mi permetta di concludere con qualche passo, i passi di Margaret Atwood come viatico per questo provvedimento, che discutiamo in questo cammino, breve o lungo che sia, che tutti noi oggi abbiamo davanti: “Considerando gli animali in sparizione, il proliferare di fogne e di paure, l'addensarsi del mare, l'area prossima a estinguersi, dovremmo essere gentili, dovremmo sentire l'allarme, dovremmo perdonarci, invece siamo contro, ci tocchiamo come chi aggredisce I doni che portiamo persino in buona fede forse nelle nostre mani si deformano in dispositivi, in stratagemmi. Qui non ci sono eserciti, qui non c'è denaro, fa freddo e più freddo diventa, a ognuno serve il respiro degli altri, il calore. Sopravvivere è la sola guerra che ci si può permettere”. La ringrazio