Dichiarazione di voto finale
Data: 
Venerdì, 17 Luglio, 2015
Nome: 
Alan Ferrari

A.C. 3098-A

 

Grazie, Presidente. Se lei mi permette, Presidente, vorrei provare a riportare un po’ di ragionamento in quest'Aula, di libero ragionamento. Dico «libero» perché – e me lo lasci dire subito, con chiarezza e testa alta – qui siedono persone libere, oneste e che lavorano con la propria autonomia e onestà intellettuale (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico). 
Quando il mio gruppo mi ha chiesto di fare la dichiarazione di voto finale su questa riforma, mi sono posto innanzitutto una domanda, paradossale per certi versi: ma gli italiani vogliono davvero riformare la pubblica amministrazione ? Il dubbio non scaturisce, ovviamente, dalla reale constatazione delle difficoltà del nostro apparato pubblico né, tanto meno, dalla per lo più fallimentare sequenza di riforme che esso ha, via via, subito. Il dubbio è sorto perché c’è qualcosa che non torna e lo dico perché pare scontato che chiunque di noi vorrebbe un'amministrazione pubblica maggiormente efficiente, ad alta produttività, orientata al risultato, fondata sulla responsabilità personale, sull'apprendimento continuo, sulla trasparenza, sulla valutazione. 
Eppure, guardando l'evoluzione della nostra pubblica amministrazione, emerge più di qualche dubbio sulla reale volontà di cambiarla. È come se tutti ci lamentassimo di come le cose non funzionino mai ed è come se chiedessimo, a gran voce, che qualcuno faccia qualcosa; ma poi, dinnanzi a possibili cambiamenti, è come se avessimo un istintivo sentimento di resistenza.
La PA italiana sembra davvero assomigliare ad un ippogrifo, quell'animale mitologico che avrebbe voglia di volare ma che deve fare i conti con la sua ingombrante natura cavallina. In realtà, vedendo i fallimento e soprattutto le sempre parziali attuazioni delle riforme passate, forse bisognerebbe prima assicurarsi che questo ippogrifo abbia, per l'appunto, davvero voglia di volare. 
La nostra pubblica amministrazione sembra connotarsi di un retaggio culturale teso tutt'altro che al risultato, anzi teso ad assicurare solo il rispetto della legalità dell'azione amministrativa. La cultura del sospetto, dell'inganno, del malaffare, peraltro, ha imposto nel tempo delle scelte di fondo che hanno tinto di un approccio sempre più giuridico tutta l'azione amministrativa, imbrigliandola spesso in procedure e procedimenti avulsi dalla realtà e totalmente disallineati ai reali bisogni. Oggi i cittadini vedono la pubblica amministrazione come ostile e inefficiente, spesso inutile o addirittura dannosa. 
Se questo è, ciò che va sottolineato oggi in quest'Aula – e lo fa il PD con forza – è che questa riforma ha centrato il punto, cogliendo alcune questioni cardine su cui sarà possibile impiantare un modello più avanzato, più snello e, soprattutto, più rispondente ai bisogni dei cittadini e delle imprese, come spesso viene ricordato nel testo. 
Benché malcelata e controversa, la richiesta di cambiamento e di innovazione c’è ed è tale da creare oggi i presupposti per innescare processi di un cambiamento radicale. Serve, però, forte discontinuità con il passato ed occorre sciogliere definitivamente alcuni nodi che tornano costantemente all'attenzione del legislatore, senza essere, però, per questo mai risolti. 
Sarà la volta buona ?Forse sì, e per assurdo a spingerci in tale direzione può anche esserci proprio il contesto sociale ed economico particolarmente critico in cui si cala questa riforma: un doppio vincolo caratterizzato da condizioni di ristrettezza economica da una parte, complessità dei bisogni e delle esigenze da soddisfare, dall'altra. Quindi: meno soldi e più richiesta di servizi pubblici. 
Il provvedimento che ci apprestiamo a votare è cambiato in molti suoi aspetti rispetto al testo approvato dal Senato. Nei suoi attuali 23 articoli vi sono molte deleghe legislative da esercitare in gran parte nei dodici mesi successivi, a dimostrazione del fatto che questo è un punto di partenza, un ottimo punto di partenza, ma non di arrivo. Un grosso sforzo è stato fatto dal Governo per assemblare le maggiori criticità dell'apparato statale in un'unica riforma, ma da domani servirà la collaborazione di tutti, di tutti gli esperti, di tutte le forze economiche e sociali del Paese. 
Questa riforma, spazia dalla riorganizzazione dell'amministrazione statale e della dirigenza pubblica, al potenziamento della digitalizzazione, dalla semplificazione dei procedimenti amministrativi alla riorganizzazione delle camere di commercio, alla razionalizzazione dei controlli del territorio e degli uffici territoriali di Governo. 
Evito la fredda elencazioni degli articoli; trovo utile, invece, provare ad analizzare gli obiettivi perseguiti dai singoli provvedimenti con una lettura organica e unitaria. Provvedimenti strettamente correlati da tre integratori: l'efficacia, l'efficienza e la semplificazione. 
Rispetto agli obiettivi di semplificazione, di valore sono, ad esempio, le previsioni dell'articolo l sul CAD, dell'articolo 2, che in materia di conferenza di servizi ne semplifica i lavori e dà certezza dei tempi, o anche dell'articolo 12, con la delega per l'adozione di tre testi unici sul personale, sulle partecipazioni pubbliche e sui servizi pubblici. 
Rispetto all'efficienza è da richiamare soprattutto l'articolo 7 sulla riorganizzazione dell'amministrazione dello Stato nella parte in cui si imposta la riduzione di quegli uffici che svolgono funzioni più lontane dai cittadini, potenziando, al contrario, quelli maggiormente rispondenti ai bisogni della collettività. Anche rispetto all'efficacia gli esempi sono tanti: nell'articolo 7, dove tra i principi e criteri della delega vi è anche la razionalizzazione e il potenziamento dell'efficacia delle funzioni di polizia, finalizzato ad evitare sovrapposizioni di competenze (parentesi: sia chiaro, tutte le funzioni di controllo e tutela ambientale, oggi in capo al Corpo forestale dello Stato, rimarranno e saranno potenziate !); nell'articolo 8, dove si introduce la previsione che il Ministero dello sviluppo economico definisca standard nazionali delle prestazioni delle camere di commercio; o ancora nell'articolo 13, dove si prevede un processo di integrazione dei sistemi di valutazione, anche al fine di migliorare la valutazione delle politiche. Mai più valutazione delle persone scollegate da ciò che producono gli enti dove esse lavorano. Nessun dipendente è in più, ma tutti devono essere utili. 
Ora, per capire se è davvero la volta buona, occorre andare più in profondità e cercare di cogliere tutto lo spirito riformista di questa delega. Una delega che sembra stare in equilibrio su tre punti delicati, in grado però di fare davvero la differenza: quello tra centrale e locale; quello tra omogeneità e differenziazione; quello tra vigilanza e responsabilizzazione. 
Il tema della centralizzazione, per quanto attiene al primo equilibrio, rischia di diventare sempre di più una perversione di chi antepone l'esigenza di una forma accentrata dello Stato, servente di una esigenza di controllo diretto, a quella di una forma più decentrata e federalista, più consona a sostenere le ricchissime e fondamentali peculiarità delle realtà locali. Non si tratta di scegliere fra centro e periferia – lo abbiamo già fatto tanto volte in passato con modesti risultati – si tratta piuttosto di creare i meccanismi operativi per compenetrare esigenze di coordinamento e controllo con quelle di autonomia e sviluppo della capacità propulsiva dei territori. 
In questo quadro, credo quindi vada letto e interpretato, ad esempio, anche l'articolo 1, in materia di integrazione dei sistemi informativi per il controllo di gestione nelle pubbliche amministrazioni. 
L'equilibrio tra omogeneità e differenziazione è strutturalmente connesso al precedente, dove il requisito dell'omogeneità nell'applicazione delle politiche risponde tipicamente ad esigenze di garanzia, ordine, confrontabilità, semplificazione delle prassi, mentre quello di differenziazione, al contrario, risponde all'esigenza di realizzare condizioni applicative differenti per le varie amministrazioni in funzione delle loro dimensioni, dei loro compiti e dei loro contesti. 
L'equilibrio tra vigilanza e responsabilizzazione, infine, chiama in causa il più generale problema dell'organizzazione e raccordo tra i controlli interni e i controlli esterni sull'uso delle risorse pubbliche. Seconda parentesi: tutte le funzioni di presidio di legalità, oggi in capo ai segretari comunali, rimarranno e verranno potenziate ! Che sia chiaro: tutto il resto sono fandonie. 
Anche l'istituzione e la gestione del ruolo unico dirigenziale va letta alla luce di questi tre punti di equilibrio. Il ruolo unico è una grande opportunità, utile ad innescare meccanismi di sana competizione e valorizzazione del merito, ai fini della retribuzione, ai fini del reclutamento e della selezione del personale dirigenziale, ai fini della piena coerenza tra i profili dei dirigenti e i ruoli che essi devono ricoprire.
Il ruolo unico è un grande atto di coraggio, che va riconosciuto a questo Governo, al Ministro Madia, che ringrazio, come ringrazio il relatore Carbone per l'attento lavoro che hanno svolto in queste settimane; come un atto di coraggio è tutto l'impianto di questa legge. 
Negli ultimi decenni abbiamo avuto una sequela di interventi normativi, tutti accomunati dalla pretesa di voler predeterminare un modello di amministrazione in astratto funzionante, in astratto funzionante. La storia ha tristemente dimostrato che questo approccio ha fallito, e il fallimento lo constatiamo vedendo le numerose disposizioni rimaste lettere morte, anche di quelle leggi positive. 
Non si è capito, o non si è voluto capire, che il cambiamento e l'innovazione parte e si gioca sui valori, le competenze e le motivazioni che guidano e vivono l'amministrazione giorno dopo giorno. La centralità dell'articolo 9, con l'istituzione del sistema della dirigenza pubblica, articolato in ruoli unificati, rappresenta proprio tutto questo. 
Prima di dire che Stato hai in mente, prima di determinare che tipo di organizzazione ti serve per raggiungere il tuo scopo, serve concentrarsi su chi il cambiamento lo vivrà sulla propria pelle, giorno dopo giorno. La differenza rispetto al passato non la farà una migliore strategia, ma l'impostazione delle condizioni abilitanti al cambiamento stesso. 
Il cambiamento non è predeterminabile: va prima di tutto compreso ed interpretato. Oggi, nel Paese, vi sono molte istanze che .richiedono – ho finito, Presidente – fermezza, decisionismo e coraggio. Molto spesso abbiamo caratterizzato l'azione del Governo Renzi con la parola «coraggio». Anche stavolta va così, perché questa riforma di coraggio ne ha da vendere, ne ha il Governo, ne ha il PD. 
Per cui, mi appresto ad esprimere il voto favorevole, a differenza, ancora una volta, di Lega, Forza Italia e MoVimento 5 Stelle, che perdono una grande occasione in cambio della solita rocambolesca ricerca di originalità mediatica.
Presidente, ho provato a visualizzare un'immagine che potesse rappresentare tutta questa storia e mi sono venuti menti due atleti, due acrobati: uno è la pubblica amministrazione, l'altro i cittadini. Sono nel pieno della loro evoluzione, nessun salto nel vuoto. Quella presa non è un atto di fiducia, ma la consapevolezza che quella stretta può essere e deve essere reciproca. Quella mossa, quelle mani che cingono reciprocamente il polso dell'altro, quella si chiama adesione, si chiama tenuta, si chiama credere, insieme, nell'Italia e nelle sue istituzioni.