Discussione sulle linee generali
Data: 
Mercoledì, 17 Dicembre, 2014
Nome: 
Alessandro Naccarato

A.C. 2613-A

 

 Signor Presidente, colleghi, la riforma costituzionale affronta temi irrisolti da anni, rafforza la democrazia parlamentare e riordina il sistema delle autonomie locali. Il disegno di legge è una risposta alla crisi delle istituzioni e interviene per superare i limiti del nostro sistema democratico. Il disegno di legge supera il bicameralismo paritario perfetto e disegna un sistema legislativo monocamerale. Il Senato diventa un organo di secondo grado eletto dai consigli regionali, che rappresenta le istituzioni territoriali. Il Senato è escluso dalla compartecipazione all'indirizzo politico e dalla relazione fiduciaria con un Governo, che è assegnata alla sola Camera dei deputati. 
Sul piano politico, il nuovo Senato richiama – e questo è un elemento di soddisfazione – l'impianto programmatico del Senato delle autonomie al centro della proposta della coalizione dell'Ulivo del 1996, di cui si è tanto parlato; evidentemente c'erano diverse cose giuste in quella proposta programmatica e si tratta di riuscire a realizzarle. 
Il testo originale è stato in parte peggiorato nel corso dell'esame dell'attuale Senato, dove è stata assegnata al nuovo Senato delle autonomie locali la competenza sugli articoli 29 e 32 della Costituzione su famiglia e trattamenti sanitari obbligatori e sono stati inseriti, sempre nel nuovo Senato, i cinque senatori di nomina presidenziale. 
Ora, la prima questione è stata corretta durante l'esame in Commissione affari costituzionali. Sulla seconda c’è stato un confronto – molti colleghi lo hanno ricordato – che penso vada approfondito, senza alcuna intenzione di stravolgere o, peggio, bloccare la riforma, perché la presenza dei cinque senatori di nomina presidenziale, secondo molti esperti ascoltati nel corso delle audizioni, non pare né coordinata né appropriata al nuovo Senato, mentre tale presenza sembra a molti più adeguata ad essere inserita all'interno della Camera dei deputati. 
L'altro punto importante su cui mi soffermerò di più è il Titolo V. Ora, alla luce della riforma del 2001, ritengo necessario correggere i limiti profondi emersi in 14 anni di esperienza, che sono evidenti in tre aspetti principali. Il primo: la confusione nell'attribuzione delle funzioni e delle materie tra Stato e regioni e i conseguenti ricorsi alla Corte costituzionale. Tale confusione ha prodotto la moltiplicazione delle leggi regionali in diverse materie, generando costi crescenti e incertezze e ostacoli per le attività economiche. 
Secondo: i risultati economici negativi di molte regioni e delle autonomie locali. Sul punto risulta di grande interesse l'analisi della sezione autonomie della Corte dei conti sull'andamento dei bilanci delle regioni, introdotta dalla legge n. 213 del 2012, che evidenzia il fatto che dal 2001 i bilanci delle regioni hanno presentato difficoltà crescenti e un ricorso eccessivo all'indebitamento. 
Terzo: la paralisi nell'assunzione di decisioni strategiche su materie fondamentali, come la politica energetica e le infrastrutture, dove i veti incrociati delle regioni e degli enti locali hanno bloccato la realizzazione di opere decisive per lo sviluppo del Paese. Sul primo punto è utile leggere con attenzione un eccellente lavoro di ricerca del Servizio studi della Commissione affari costituzionali, che esamina l'attività della Consulta dal 2001 a oggi ed evidenzia lo spazio assunto dal giudizio in via principale, sia in termini assoluti sia in termini percentuali.
Nel periodo analizzato, il giudizio in via principale è aumentato dal 7,6 al 45,7 per cento delle pronunce della Corte. Sull'esito, poi, di tali ricorsi, uno studio recente sugli ultimi tre anni indica che sui ricorsi regionali o provinciali contro leggi statali le dichiarazioni di incostituzionalità costituiscono un quinto del totale, mentre, per quanto riguarda i ricorsi dello Stato, le pronunce di incostituzionalità sono state il 62 per cento nel 2013 e il 55 per cento nel 2012. 
Sull'andamento economico-finanziario delle autonomie locali è intervenuta la legge costituzionale n. 1 del 2012, che ha modificato gli articoli 81, 97, 117 e 119 e ha introdotto il principio del pareggio di bilancio, corrrelandolo a un vincolo di sostenibilità del debito di tutte le pubbliche amministrazioni, nel rispetto delle regole derivanti dall'ordinamento europeo. La legge del 2012 ha delimitato, finalmente, l'autonomia finanziaria degli enti territoriali e ha spostato l'armonizzazione dei bilanci pubblici dall'ambito delle materie concorrenti a quello delle materie di competenza legislativa esclusiva dello Stato. 
La Corte ha fotografato il fallimento della riforma del 2001 con la sentenza n. 62 dell'anno scorso, che ha affermato che la crisi economico-sociale ha «ampliato i confini entro i quali lo Stato deve esercitare la competenza esclusiva nella determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale». 
È un punto importante da evidenziare, perché segnala che i limiti della riforma del 2001 hanno prodotto effetti negativi sui conti pubblici statali, hanno indebolitole le istituzioni di fronte alla drammatica crisi economica in corso e indica la necessità che le giuste modifiche costituzionali della legge del 2012 siano ora completate dalle coerenti modifiche ordinamentali presenti nel disegno di legge in discussione. 
Sul Titolo V abbiamo assistito in questi anni – e ve ne è stata una ripresa anche nel dibattito in Aula di questi giorni – alla demagogia sul federalismo, che, anziché favorire lo sviluppo delle pratiche virtuose di autonomia del governo locale, ha prodotto risultati negativi sul piano economico-finanziario e sul piano normativo, e ha causato la deresponsabilizzazione dei livelli locali di governo e un aumento delle differenze e delle distanze tra le varie zone del Paese. 
Basta pensare al sistema sanitario, che presenta bilanci fortemente indebitati e prestazioni diverse nelle diverse regioni. Basta pensare all'uso propagandistico che si è fatto dell'articolo 116 della Costituzione, quello che prevede le tanto decantate forme e condizioni particolari di autonomia per le regioni. Nessuna regione, neppure quelle governate dalla Lega, ha mai utilizzato fino in fondo questa previsione; neppure negli anni, e sono stati tanti, dei Governi di centrodestra. 
Si deve partire, penso, dalla constatazione che il federalismo fiscale è stato un fallimento, sia per come è stato disegnato nel 2001 sia per come è stato realizzato con la legge n. 42 del 2009, che venne presentata con enfasi dall'allora Governo di centrodestra. Il federalismo è stato alimentato da un'ideologia che non ha retto alla prova dei Governi nazionali e locali, neppure a quelli a guida leghista.  La tesi di fondo assegnava al federalismo fiscale una superiorità miracolosa: la pressione fiscale sarebbe diminuita e la spesa pubblica sarebbe diventata più efficiente, con un semplice colpo di bacchetta magica, magari di colore verde. Vi ricordate, penso tutti, lo slogan: «pago, vedo, voto». Come si è tradotto sul piano legislativo questo slogan accattivante ? Con un disastro. Infatti, con la legge n. 42 del 2009, i Governi di centrodestra hanno realizzato un federalismo completamente diverso: la pressione fiscale è cresciuta a livello locale, l'indebitamento degli enti territoriali è aumentato. Infatti, quella legge e i conseguenti decreti legislativi, che hanno portato con sé, in realtà, varie strutture burocratiche costose e inconcludenti, che spesso danno l'impressione di volersi autoalimentare, hanno determinato un modello fondato su due aspetti. Da un lato, un assetto basato su tributi, come l'IRAP, raccolti dallo Stato, e sul ricorso alla compartecipazione dei prelievi statali, anziché sui tributi locali e sulle addizionali. Dall'altro, le regioni hanno avuto, in determinate materie, autonomia tributaria e di spesa e hanno allargato la sfera dei servizi gestiti direttamente o mediante costosissime società partecipate. Le regioni sono diventate, in contrasto con le previsioni costituzionali, enti gestori e hanno costruito una sorta di centralismo regionale finanziato con le compartecipazioni a danno dei tanto sbandierati principi di autonomia locale e di responsabilità. Dove erano i leghisti mentre si realizzava il centralismo regionale e la pressione fiscale locale cresceva ? Perché a sentire il dibattito sembra che questi aspetti siano scomparsi dalla nostra discussione, mentre questo è accaduto sotto i nostri occhi, inneggiando al federalismo in maniera inconcludente. Io credo che questo punto debba essere analizzato con attenzione alla luce delle esperienze concrete di questi anni. La legge n. 213 del 2012 ha affidato, come ricordavo prima, alla sezione autonomie della Corte dei conti il controllo sui bilanci delle regioni, e in base a quella legge la Corte presenta una relazione al Parlamento ogni anno. La relazione deve essere letta, io credo con attenzione particolare, perché descrive, in maniera plastica, lo stato fallimentare del federalismo realizzato con la legge n. 42 del 2009. I dati sono allarmanti e riguardano quasi tutte le regioni, anche quelle che si sono autoproclamate virtuose. Si va dai prestiti del Governo per pagare gli arretrati alle imprese fornitrici della sanità erogati alla regione Piemonte, all'epoca a guida leghista, che sono stati utilizzati per pagare altri debiti e passività pregresse extrabilancio, ai controlli inesistenti in Calabria e in Campania, agli errori di contabilizzazione dell'indebitamento e alle rappresentazioni contabili scorrette del Veneto, altra regione a guida leghista. Poi ci sono le regioni a statuto speciale, che non vengono toccate dalla riforma, secondo me sbagliando. In Sicilia solo metà delle leggi sono accompagnate dalla relazione tecnica con gli effetti che si possono facilmente immaginare. In Sardegna, nel 2010, 2011 e 2013, si sono approvate leggi prive di copertura finanziaria, anche qui lascio immaginare gli effetti. In Friuli vengono segnalati, cito dalla relazione della Corte dei conti: 1.700 dipendenti che lavorano fuori bilancio in un sistema satellitare composto da enti, agenzie, aziende, società ed enti funzionali. Qui si pone un aspetto che merita una riflessione ulteriore sul principio di responsabilità degli amministratori delle regioni. Ritengo che sia necessario valutare la possibilità di estendere l'applicazione della clausola di supremazia, e su questo sono stati presentati emendamenti che spero verranno esaminati con la dovuta attenzione, anche alle regioni speciali e di rendere più incisive le previsioni dell'articolo 120 della Costituzione sul commissariamento delle regioni, altrimenti assistiamo al paradosso che diventano commissari i presidenti delle regioni che hanno creato i debiti che hanno portato al dissesto finanziario delle regioni stesse. Allora, al di là dell'approccio ideologico, che ancora ritorna in molti interventi, dobbiamo interrogarci sul fallimento del federalismo fin qui realizzato. La delocalizzazione e la decentralizzazione dei tributi non è stata utilizzata nel modo migliore e molti enti territoriali si sono dimostrati impreparati e incapaci nella gestione delle funzioni di accertamento e riscossione. Allo stesso tempo, la moltiplicazione dei centri decisionali sulla spesa ha prodotto un aumento dei costi senza controlli adeguati. Attenzione, però, e concludo, il fallimento del federalismo del centrodestra non può, e non deve diventare un alibi per cancellare la giusta richiesta di maggiore autonomia e maggiori poteri da parte degli enti territoriali, purché agganciati a una serie di aspetti di bilancio che rendano praticabili queste richieste. Per questo, la riforma va nella direzione giusta; attribuisce, in modo più appropriato, le funzioni tra Stato e regioni, corregge alcune storture e limiti che hanno prodotto la situazione appena descritta. 
La riforma contiene gli elementi per riprendere con coraggio il percorso verso una Repubblica, in cui Stato ed autonomie locali cooperano e collaborano tra loro, rafforzando le regioni con competenze ben definite e attraverso il superamento della finanza derivata, con effettive entrate proprie e controlli più incisivi in un quadro di maggiori responsabilità. 
Su questo io credo che una riflessione ulteriore serva farla sullo spostamento delle materie che si è proposto, in maniera seria io credo, nel disegno di legge di riforma. Tra queste, a mio parere, sono di fondamentale importanza l'ordinamento scolastico, l'istruzione universitaria e la programmazione strategica della ricerca scientifica e tecnologica. Si tratta di temi di assoluto rilievo, infatti tutti riconoscono a parole che scuola, università, conoscenza e ricerca sono settori decisivi per la formazione delle persone, per aumentare i saperi, per affrontare la crisi economica e per rilanciare la crescita. Il Governo ha deciso giustamente con la legge di stabilità di investire maggiori risorse, dopo anni di tagli lineari, nella pubblica istruzione. 
Queste scelte devono essere accompagnate ora da una definizione certa delle competenze, superando le incertezze e le confusioni presenti nell'attuale assetto definito dal Titolo V. Infatti oggi lo Stato ha competenza esclusiva sulle norme generali sull'istruzione, mentre l'istruzione, salva l'autonomia delle istituzioni scolastiche, è compresa tra le materie di legislazione concorrente e l'istruzione e la formazione professionale sono affidate alla competenza residuale delle regioni. Il disegno di legge di riforma assegna allo Stato in via definitiva le disposizioni generali e comuni sull'istruzione e l'ordinamento scolastico e assegna alle regioni, fatta sempre salva l'autonomia scolastica, i servizi scolastici, l'istruzione e la formazione professionale. È certamente un assetto più appropriato, che consente di lavorare per dare maggiore importanza e ruolo alla scuola ed alla istruzione. 
Concludo con un'ultima considerazione su un'altra materia, che viene ridefinita in modo appropriato, che è la ricerca scientifica e tecnologica. Oggi questa materia è di competenza concorrente con gli effetti drammatici che vediamo. Come non rendersi conto che la ricerca non può essere sostenuta e sviluppata se non all'interno di piani e finanziamenti nazionali ? Tante delle lamentele e delle proteste sui mancati finanziamenti e sui mancati investimenti in questi settori derivano da una scelta allora sbagliata, nel 2001, che non definiva in maniera precisa a chi fare svolgere questo tipo di funzione. Ora con la riforma, in maniera appunto quanto mai opportuna, questa materia diventa di competenza esclusiva dello Stato. Mi pare sia un altro segnale importante nella ridefinizione di materie e poteri, che penso vada nella direzione giusta per la riforma del Titolo V della Costituzione.