Discussione sulle linee generali
Data: 
Mercoledì, 17 Dicembre, 2014
Nome: 
Giovanni Cuperlo

A.C. 2613-A

 

 Signora Presidente, penso anch'io, è stato già detto da numerosi colleghi in questi due giorni, che la volontà di tagliare il traguardo storico di una riforma del bicameralismo abbia oggi una ragione di fondo, almeno se pensiamo che una recessione senza precedenti della nostra economia, sommata al declino delle rappresentanza, produce una crisi della democrazia molto più evidente nel nostro Paese che altrove. 
E non è una questione di percentuali nelle urne – in fondo la Francia ha consegnato la maggioranza al Fronte Nazionale, mentre qui il partito che guida il Paese ha superato qualche mese fa il 40 per cento dei consensi –, è proprio la tenuta di un ordine politico-istituzionale che va messo al centro. Ed è questo motivo che mi porta a sostenere il bisogno di una buona riforma. Naturalmente è giusto avere cura del modello che questa stagione è destinata a partorire, perché noi stiamo parlando dell'assetto dello Stato e degli equilibri istituzionali destinati a chiudere una transizione durata più o meno vent'anni, che, per una democrazia, è un tempo infinitamente lungo. Allora, sul merito, io penso che la sequenza delle audizioni ha avuto il merito di suggerire alcune modifiche che hanno portato ad un miglioramento del testo giunto al nostro esame. Ed è stato certamente un merito dei relatori, che anch'io ringrazio, avere raccolto quelle indicazioni, a cominciare dal fatto che parliamo di una Camera destinata a divenire sei volte più numerosa del Senato; e questo ha indotto giustamente una modifica al quorum per l'elezione del Capo dello Stato. Personalmente lo considero un risultato positivo, e anche la conferma – mi permetto di dirlo ai banchi del Governo – che su questa materia è giusto aprirsi alle correzioni, quando lo spirito sia teso a costruire. Lo dico, colleghi, perché nei giorni scorsi vi è stata una discussione dai toni anche accesi attorno al voto che ha rimosso dall'articolo 2 la previsione dei cinque senatori di nomina presidenziale. Io non torno sul merito se non per dire che riterrei saggio, nell'assoluto rispetto dell'Aula, confermare quell'orientamento, recependo anche in questo caso le osservazioni avanzate da più parti sulla coerenza del modello che scegliamo di adottare. Mi limito ad osservare che nessuno, ma davvero nessuno, né prima né adesso, ha voluto minacciare l'obiettivo finale. Cioè, non si tratta di rallentare il processo avviato, e la conferma è venuta dalla scelta di non incrinare i pilastri di questa nuova architettura che stiamo discutendo. In questa direzione si è mossa la conferma di un Senato non elettivo, pur sapendo che sul punto esistevano delle opinioni diverse. Ma dal Senato stesso era uscita un'indicazione nitida e a quel punto l'appello del Governo a non azzerare il percorso compiuto, a non ricominciare da capo, è parso un appello del tutto ragionevole, il che però rende ancora più decisivo fissare la cornice adatta a rendere quel modello realmente funzionante. In questo senso credo sia giusto collegare la revisione costituzionale alla legge elettorale, che oggi è all'esame dell'altro ramo del Parlamento. Ed è giusto farlo perché alcuni dei nodi che si vogliono aggredire non paiono ancora sciolti. Le questioni sono quelle note. La prima: per quasi un decennio noi abbiamo detto che gli elettori dovevano conoscere e scegliere i propri rappresentanti. Ora, la combinazione tra riforma del Senato e legge elettorale, ad oggi, questo principio lo rinvia una volta di più, nel senso che i cittadini continueranno a non scegliere una maggioranza dei deputati, a meno di modifiche al testo ora all'esame del Senato. Sappiamo anche che i cittadini non eleggeranno più i senatori né il presidente della città metropolitana né i consiglieri della provincia, che rivive con il nome di area vasta; in compenso sceglieranno con le primarie il segretario del partito ad oggi più votato, in uno schema che trasferisce il meccanismo di base della democrazia rappresentativa dalle istituzioni ad una singola formazione, forse in futuro più di una(Applausi di deputati del gruppo Lega Nord e Autonomie). Il rischio è che il ceto politico selezioni una volta di più il ceto politico, mentre l'appello al popolo e alla sua responsabilità transiterebbe dal confronto interno ad uno o più partiti. Per parte mia, continuo a ritenere un limite restringere i confini della rappresentanza proprio quando tra società e istituzioni viviamo la frattura più grave dell'intera vicenda, parabola repubblicana.
Seconda questione: noi sappiamo che negli ultimi 10-15 anni la tendenza, non solamente in Italia ma in generale nelle democrazie più mature, più avanzate, è stata di spostare il perno dell'azione legislativa dal Parlamento ai Governi. Le ragioni di questa tendenza, di questo processo sono molteplici e hanno riempito saggi e numerosi studi analitici, però vi è stato modo e modo di procedere, nel senso che un po’ ovunque si è tenuto conto dei contrappesi per un funzionamento corretto dei diversi sistemi. Per dire, in Francia – un Paese a noi vicino – il Senato ha acquisito un maggiore carico nel processo legislativo come contrappeso dell'Assemblea nazionale e in Germania la maggiore forza decisionale, il potere decisionale dell'Esecutivo, è stata compensata da un maggiore radicamento dell'impianto federale. 
Ora, letta così, la nostra riforma non sembra ancora del tutto coerente con la tendenza che si va affermando in altre grandi democrazie; cioè, nel nostro caso, rischiamo di produrre un po’ un unicum dove la riduzione delle prerogative di un ramo del Parlamento non è compensata adeguatamente da un ampliamento dei controlli da parte di altri poteri dello Stato. 
Diciamo che il pericolo è rafforzare il peso del Governo dentro il Parlamento con i decreti che continueranno a esercitare i loro effetti, con le deleghe che sappiamo a volte prive di chiari principi direttivi, ma in questo senso è importante il ruolo, il compito che l'attività di quest'Aula svolgerà nelle prossime settimane. E dico subito che in questo senso – ancora una volta ringrazio i relatori – io considero positive le correzioni introdotte sulla corsia preferenziale del Governo, il cosiddetto voto a data certa, allo scopo di prevedere una reale potestà della Camera sulla propria attività. 
Infine, sulla questione del Titolo V, diciamo così, la riforma che noi stiamo discutendo supera l'ispirazione del federalismo cooperativo che ha segnato il dibattito degli anni Novanta in questo Paese ma che oggettivamente, se siamo sinceri in questa sede, non ha dato una prova brillantissima di sé. Però, se noi consideriamo questo ritorno, insieme alle modifiche apportate all'articolo 81 della Carta, quella che emerge è una perdita di autonomia, prima di tutto sul versante della finanza pubblica, da parte di comuni e regioni. È un bene ? È un male ? Si possono avere, in questa Aula ci sono sicuramente, opinioni diverse, ma rimane il fatto in sé: è così. Per noi, a questo punto, conta moltissimo come si governa questo processo. 
Nello specifico la riforma ha scelto di prevedere due elenchi di materie, le prime di competenza statale e le altre di competenza regionale, e tra questi due elenchi non c’è omogeneità perché mentre le regioni non possono entrare nel dominio esclusivo e riservato allo Stato, lo Stato può entrare in quello regionale quando lo richiedano l'unità del Paese o l'interesse nazionale. Unità del Paese, interesse nazionale sono requisiti da tutelare, ma che forse potrebbero essere garantiti meglio dalla vecchia tecnica delle materie concorrenti dove lo Stato fissa i principi e le regioni li attuano con le proprie leggi. Infatti, in questo modo, noi non comprometteremmo l'ispirazione di una cooperazione efficace tra le istituzioni e i diversi livelli istituzionali. Lo dico anche perché io credo sia ragionevole evitare il rischio sollevato, non voglio dire dalla maggioranza ma da un numero significativo di costituzionalisti, attorno al pericolo concreto di un aumento futuro del contenzioso costituzionale. 
Detto tutto ciò, se io posso permettermi una considerazione finale di ordine più politico, resto dell'idea che la crisi italiana non sia oggi prevalentemente una crisi istituzionale. La nostra, a tutti gli effetti, è una profonda crisi politica, oggi anche economica e sociale, si sarebbe detto un tempo una crisi più sistemica, come si vede anche in questo passaggio. Penso agli indicatori di una recessione che ha già cambiato la morfologia sociale, le fasce dell'inclusione e della marginalità. Poi, certo, molti dei nostri problemi vengono da prima, alcuni vengono persino da lontano. Il punto è che noi abbiamo alle spalle almeno un decennio dove la rivendicazione di maggiore potere decisionale non è riuscita a compensare una crisi della rappresentanza e della stessa coesione sociale.
E il risultato è stata un'inflazione di atti normativi, ma nessuna vera riforma, il che rende ancora più prezioso e urgente il tentativo e il lavoro che noi siamo chiamati a compiere. 
Il nostro obiettivo, dunque, deve tendere alla creazione di un ordinamento stabile e dotato dei contrappesi che rendono solide le democrazie. In questo senso il superamento del bicameralismo deve servire a rafforzare la democrazia parlamentare di questo Paese, non certo ad indebolirla. Cioè, dobbiamo evitare, tutti assieme credo, che il potere legislativo venga semplicemente adattato, un po’ come un abito sartoriale che si cuce su misura, ad un Esecutivo – non quello di oggi, quello di domani, quello di dopodomani – che potrebbe cedere alla tentazione di utilizzare il premio di maggioranza non solo per governare il Paese, come è del tutto legittimo, anzi doveroso, ma per intervenire su leggi fondamentali, che si tratti dell'autonomia della magistratura, delle libertà personali o della stessa legge elettorale. 
Come è stato ricordato in questa discussione da più colleghi, potrebbe diventare di parte persino la decisione più grave, più solenne, l'impegno militare fuori dai confini nazionali e questo di fronte ad un'agenda che non mette oggi la guerra fuori dalla storia, il che suggerisce di riflettere ancora, lo dico anche al Governo, e molto seriamente sulle proposte che tendono, sul punto specifico, ad un innalzamento del quorum previsto nel voto della Camera. 
Infine, davvero, io considero assai opportuno che quest'Aula sia chiamata a riflettere sul punto che la Commissione ha esaminato con un dibattito di notevole profondità, grazie a un intervento pregevole dell'onorevole Giorgis nella parte conclusiva dei suoi lavori, a tarda ora sabato sera. Parlo della norma transitoria sul sindacato preventivo di costituzionalità della nuova legge elettorale. Lo dico perché sarebbe una ferita non rimarginabile se le regole elettorali dovessero incorrere ex post in una nuova bocciatura della Consulta. E allora prevedere, come del resto avviene in altri ordinamenti, un giudizio preventivo su quelle regole io credo si debba considerare una garanzia in più che queste riforme possano ricostruire il legame di fiducia tra i cittadini e il Parlamento.
Se mi è permesso – e ho concluso – avrei solo un piccolo «fuori sacco», ma mi ha molto colpito un passaggio delle nostre audizioni in Commissione ed è questo: «Una Costituzione non si scrive con la penna e con la lingua di una qualunque legge, perché una Costituzione ha un'altra natura e, soprattutto, coltiva una diversa ambizione, che è quella di durare nel tempo e di limitare qualunque conflitto interpretativo». Non per caso, la nostra Carta è stata scritta molti anni fa da mani magistrali e, non per caso, alla fine dei lavori dell'Assemblea costituente fu chiesto ad uno dei maggiori latinisti di quell'epoca di revisionarne il testo, naturalmente non per una banale questione di coordinamento formale, ma per garantire ad esso quella sintesi e quella potenza espressiva che noi abbiamo ricevuto in eredità. 
Ora, il testo che stiamo discutendo è più ampio di circa un terzo rispetto alla Costituzione attuale. Ci è stato detto, con un certo garbo ma anche senza una particolare reticenza, che contiene ancora dei passaggi e delle espressioni lunghe e ridonanti. Ecco, non è solamente un problema di stile.
Ho finito. È che noi dobbiamo scrivere degli articoli destinati ad essere letti e giudicati tra dieci, venti, forse trent'anni e questo, al di là di tutto, dovrebbe incuterci quel sacro timore di non essere, in un domani lontano, all'altezza della memoria dei posteri. 
Cari colleghe e colleghi, anche ascoltando le relazioni e gli interventi in quest'Aula, è chiara, almeno a me ma credo a tutti voi, la responsabilità che ci compete. Io ho iniziato dicendo che nessuno vuole scommettere sul fallimento di questo percorso e ne sono profondamente convinto. Dare all'esterno una lettura del nostro confronto o dare dall'esterno una lettura del nostro confronto piegato a modeste beghe di parte, o peggio di partito, è una caricatura che offende ciascuno di noi, indipendentemente dal posto dove siamo seduti all'interno di quest'Aula.
Anche per questo, però, io mi auguro che tutti assieme, forze di maggioranza e di opposizione, si possa accettare l'idea che alcune correzioni sono frutto esclusivo, sottosegretario, della volontà di migliorare questa riforma, così da fornire all'Italia un quadro di regole all'altezza del tempo storico che ci è dato di attraversare. È un tempo tutt'altro che facile, ma questo è l'impegno che noi ci assumiamo oggi qui, questa è la volontà che dichiariamo nella solennità di quest'Aula, nel Parlamento della Repubblica, questo è il traguardo per il quale alla fine tutti saremo giudicati.