Discussione sulle linee generali - Relatore per la maggioranza
Data: 
Lunedì, 26 Giugno, 2017
Nome: 
Franco Vazio

A.C. 2168-B

 

Onorevole signora Presidente, onorevoli colleghi, onorevole rappresentante del Governo, l'Assemblea si trova oggi ad esaminare un provvedimento atteso ormai da anni, introducendo anche nell'ordinamento italiano il delitto di tortura.

Tale proposta torna all'esame della Camera in seconda lettura (complessivamente si tratta della quarta lettura): dopo l'approvazione del Senato in un testo unificato il 5 marzo 2014, il provvedimento è stato approvato dalla Camera con modifiche il 9 aprile 2015. Il Senato lo ha approvato con ulteriori modifiche il 17 maggio 2017.

Sono numerosi gli atti internazionali che prevedono che nessuno possa essere sottoposto a tortura, né a pene e trattamenti inumani e degradanti.

Tra questi ricordiamo la Convenzione di Ginevra del 1949 relativa al trattamento dei prigionieri di guerra, la Convenzione europea dei diritti dell'uomo del 1950 (ratificata nel 1955), la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948, il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 1966 (ratificata nel 1977), la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea del 2000, la Convenzione ONU del 1984 contro la tortura ed altri trattamenti e pene crudeli, inumane e degradanti (la cosiddetta CAT), ratificata dall'Italia nel 1988 ed infine lo Statuto di Roma istitutivo della Corte Penale Internazionale del 1998.

Come appena detto l'Italia ha ratificato nel 1988 la Convenzione ONU del 1984 contro la tortura. Tuttavia, non si era ritenuto di dover introdurre lo specifico reato di tortura in quanto si era creduta sufficiente la riconducibilità delle varie condotte alla nozione di tortura sancita dalla Convenzione ONU; condotte che avevano, come tuttora hanno, una rilevanza penale nell'ordinamento italiano attraverso una serie di reati specifici con connesse circostanze aggravanti. Si pensi, ad esempio, alle percosse (articolo 581 c.p.) alle lesioni (articolo 582 c.p.), alla violenza privata (articolo 610 c.p.), alle minacce (articolo 612 c.p.), alle ingiurie (articolo 594 c.p.), al sequestro di persona (articolo 605 c.p.), all'arresto illegale (articolo 606 c.p.), alla indebita limitazione di libertà personale (articolo 607 c.p.), all'abuso di autorità contro arrestati o detenuti (articolo 608 c.p.), alle perquisizioni e ispezioni personali arbitrarie (articolo 609 c.p.).

Questo elenco di reati, tuttavia, per quanto ampio, non appare esaustivo, come dimostra la complessità, anche tecnico-giuridica, che negli ultimi anni ha caratterizzato il dibattito svoltosi nel nostro Paese sul tema della tortura. Dibattito che ha portato in primo piano la questione della sussistenza di un obbligo giuridico internazionale all'introduzione dello specifico reato di tortura (previsto dall'articolo 4 della CAT). Infatti, si tratta di reati che non prevedono – al contrario di quanto statuito dai richiamati atti internazionali – la possibile sofferenza mentale ed in cui, a volte, manca il dolo nell'infliggere le sofferenze alla vittima; si tratta di reati per lo più procedibili a querela di parte (fatto che espone la vittima a ritorsione) e con termini di prescrizione brevi (anche a causa della lieve entità delle pene).

Nell'articolo 1 della CAT la specificità del reato di tortura è strettamente connessa alla partecipazione agli atti di violenza, nei confronti di quanti sono sottoposti a restrizioni della libertà, di chi è titolare di una funzione pubblica. La tortura è individuata come reato proprio del pubblico ufficiale che trova la sua specifica manifestazione nell'abuso di potere e, quindi, nell'esercizio arbitrario ed illegale di una forza di per sé legittima. È opportuno sottolineare che peraltro non si può considerare in contrasto con la Convenzione ONU la previsione di un reato comune di tortura affiancato al reato proprio.

Nello Statuto della Corte Penale Internazionale la tortura viene configurata come reato comune caratterizzato da dolo generico. Rispetto alla definizione della CAT è infatti assente qualsiasi riferimento allo scopo, così come l'identificazione dell'autore della tortura come pubblico ufficiale: la vittima del reato non è più, quindi, un soggetto di cui è limitata la libertà da una pubblica autorità, bensì ogni persona di cui un'altra, a qualsiasi titolo, «abbia la custodia o il controllo».

Per completare l'excursus sul quadro normativo sovranazionale si ricorda l'articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), che contempla espressamente la proibizione della tortura. In particolare detto articolo prevede che: «Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti», distinguendo dunque tre tipi di condotte: la tortura, i trattamenti o le pene inumane, i trattamenti o le pene degradanti. In estrema sintesi, la Corte EDU, nella sua giurisprudenza, ha precisato preliminarmente come, per verificare se vi sia stata o meno una violazione dell'articolo 3, occorre che la condotta in questione raggiunga un «livello minimo di gravità» (che va valutata indipendentemente dalla legittimità o meno del trattamento) accertato il quale deve poi essere qualificata e ricondotta in uno dei tre comportamenti sopra descritti. Tale livello minimo di gravità va valutato in base ad un insieme di circostanze quali il sesso, l'età, lo stato di salute della vittima, la durata del trattamento e le conseguenze fisiche e mentali.

La Corte ha quindi operato una distinzione in base al grado di sofferenze inflitte: molto gravi e crudeli nella tortura, mentali e fisiche di particolare intensità nel trattamento inumano, atte a provocare umiliazione e angoscia nel trattamento degradante. Ed ha chiarito che la tortura è il trattamento disumano o degradante che causa le sofferenze più intense: ogni atto di tortura è dunque al contempo anche un trattamento disumano e degradante. Secondo la Corte, l'articolo 3 della Convenzione impone in ogni caso allo Stato di proteggere l'integrità fisica delle persone private della libertà.

A tale riguardo, rammento che il dibattito in terza lettura presso il Senato si è sostanzialmente concentrato sull'opportunità di una formulazione del reato di tortura quanto più possibile attinente a quella della Convenzione ONU del 1984 e quindi sulla scelta o meno della tortura come reato proprio - del solo pubblico ufficiale - e a dolo specifico. Altro profilo molto dibattuto è stato quello relativo alla necessità della reiterazione delle condotte illecite ai fini della configurazione del reato.

Passo all'esame del provvedimento, che si compone di 6 articoli.

L'articolo 1 introduce nel titolo XII (Delitti contro la persona), sez. III (Delitti contro la libertà morale) del codice penale gli articoli 613-bis e 613-ter.

Il primo articolo disciplina la fattispecie incriminatrice del delitto di tortura.

L'articolo 613-bis c.p. punisce con la reclusione da 4 a 10 anni chiunque, con violenze o minacce gravi ovvero agendo con crudeltà cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza ovvero che si trovi in situazione di minorata difesa, se il fatto è commesso con più condotte ovvero comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.

Pertanto, affinché si realizzi il reato di tortura: deve sussistere un nesso di causalità tra l'azione posta in essere dall'agente e le acute sofferenza fisiche ovvero il verificabile trauma psichico; la condotta deve essere stata connotata da almeno uno dei seguenti elementi: violenze, minacce gravi, crudeltà; la vittima deve trovarsi in almeno una delle seguenti condizioni: essere persona privata della libertà personale; essere affidata alla custodia (o potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza) dell'autore del reato; trovarsi in situazione di minorata difesa; il fatto deve essere stato commesso secondo almeno una delle seguenti modalità: pluralità di condotte; trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.

Il reato, caratterizzato dal dolo generico, viene costruito come reato di evento (le sofferenze "acute" inflitte alla vittima o il verificabile trauma psichico).

L'articolo 613-bis prevede poi specifiche fattispecie formulate sotto forma di fattispecie aggravate del reato di tortura.

La prima fattispecie aggravata (secondo comma), conseguente all'opzione del delitto come reato comune, interessa la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio dell'autore del reato, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio; la pena prevista è in tal caso la reclusione da 5 a 12 anni (era da 5 a 15 anni nel testo Camera).

Viene precisato dal terzo comma dell'articolo 613-bis che la fattispecie in questione ("il comma precedente") non si applica se le sofferenze per la tortura derivano unicamente dall'esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti.

Il secondo gruppo di fattispecie aggravate (quarto comma) consiste nell'avere causato lesioni personali comuni (aumento fino a 1/3 della pena), gravi (aumento di 1/3 della pena) o gravissime (aumento della metà). Le altre fattispecie aggravate (quinto comma) riguardano la morte come conseguenza della tortura nelle due diverse ipotesi: di morte non voluta, ma conseguenza dell'attività di tortura (30 anni di reclusione, mentre nel testo della Camera era previsto l'aumento di due terzi delle pene); di morte come conseguenza voluta da parte dell'autore del reato (pena dell'ergastolo).

In relazione alla formulazione della fattispecie, è opportuno ribadire che da parte della Commissione Giustizia si è ritenuto che questa sia conforme alla giurisprudenza della Corte Penale Internazionale e alla Corte EDU, alle raccomandazioni del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti ed alla Convenzione delle Nazioni Unite sulla tortura.

Questa precisazione è opportuna anche alla luce di alcune perplessità avanzate dal Commissario per i diritti umani Consiglio d'Europa attraverso una lettera inviata, tra gli altri, alla Presidente della Camera e alla Presidente della Commissione Giustizia.

Le perplessità riguardano i seguenti punti: a) al contrario della Convenzione ONU, la proposta di legge prevederebbe che debbano concorrere "più condotte" di violenza o minacce gravi, ovvero crudeltà; b) la tortura si configurerebbe in presenza di trattamenti inumani che siano anche degradanti, mentre la Convenzione ONU prevede disgiuntamente le due qualificazioni del trattamento; c) la tortura psicologica sarebbe limitata ai casi in cui il trauma psicologico sia verificabile; d) la proposta di legge adotterebbe una definizione ampia di tortura, tale da ricomprendere anche i comportamenti di privati cittadini, a cui fa seguito il monito di non indebolire la tutela contro le torture inflitte dai pubblici ufficiali; e) la prescrittibilità del reato di tortura.

In realtà, si tratta di preoccupazioni che possono essere superate attraverso una corretta interpretazione delle norme introdotte, senza la necessità di modificare il testo.

Per quanto attiene alla previsione di una necessaria pluralità di condotte, si rileva che in realtà ci si trova innanzi a un reato a condotta plurima. Esso, infatti, può essere commesso attraverso diverse condotte tra loro alternative, come risulta chiaramente dall'utilizzo dalla congiunzione disgiuntiva “ovvero” proprio nelle due parti della formulazione descrittiva della condotta stessa.

L'uso plurale dei termini “violenza” e “minaccia” e l'uso singolare del termine “crudeltà” descrivono solo una parte delle condotte costitutive del reato. La disposizione deve essere letta nel senso che il reato sussiste, quando di fronte ad atti di “violenze” o “minacce gravi” o “crudeltà”, le condotte siano plurime, oppure, anche nel caso di un solo atto di violenza, minaccia grave o crudeltà quando esso comporti un “trattamento inumano e degradante per la dignità umana”.

Considerato che si precisa che il fatto deve essere commesso mediante più condotte “ovvero” deve comportare un trattamento inumano e degradante per la dignità umana, è da ritenere che la seconda alternativa si riferisca proprio al caso in cui la condotta sia unica, in quanto altrimenti sarebbe stato inutile prevedere una ipotesi alternativa rispetto a quella della pluralità delle condotte.

Del resto appare davvero un caso di scuola ipotizzare una tortura che nella storia si sia configurata e realizzata attraverso un solo atto di violenza o di una sola minaccia, ancorché grave.

In merito alla questione della previsione congiunta anziché alternativa delle caratteristiche di inumanità e degradazione della dignità umana, per quanto attiene il trattamento derivante dalla tortura si ritiene che si tratti di un falso problema, benché la Convenzione unisca tali caratteristiche attraverso una congiunzione disgiuntiva (“o”). A ben vedere ci troviamo infatti di fronte ad un concetto unitario, ad una endiadi, non sussistendo un trattamento inumano che allo stesso tempo non sia anche degradante per la dignità umana e viceversa.

Il fatto che la tortura psicologica sia limitata ai casi in cui il trauma psicologico sia verificabile non rappresenta in alcun modo una limitazione dell'ambito applicativo del reato di tortura, trattandosi di una precisazione che non è altro che applicazione del principio generale secondo cui gli elementi costitutivi di un reato in sede processuale devono essere ancorati a elementi riscontrabili (testimonialmente, con perizie o in altro modo) e non invece riferirsi a dichiarazioni di principio o a impalpabili valutazioni soggettive. Per tale ragione si potrebbe addirittura considerare superflua la precisazione che il trauma psicologico debba essere verificabile: è ovvio infatti che il trauma deve trovare un riscontro processuale, diversamente non sarebbe provato e quindi il reato non sussisterebbe.

La previsione di un reato base comune e di una fattispecie punita più gravemente nel caso in cui il fatto sia stato commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio non può essere considerata in alcun modo in contrasto con la Convenzione ONU che costruisce il reato di tortura come reato proprio. La proposta di legge, che recepisce la filosofia dello Statuto della Corte Penale Internazionale, dove la tortura viene configurata come reato comune caratterizzato da dolo generico, non si limita a prevedere un mero aumento di pena proporzionato alla pena base, ma, proprio in considerazione della plurioffensività della condotta del pubblico ufficiale, prevede una pena specificatamente individuata (da cinque a dodici anni) e di portata più grave, in conformità alle previsioni convenzionali. Inoltre, il reato così configurato (reato comune) consente di punire anche la tortura anche se commessa non da pubblici ufficiali ovvero là dove trae ragione e forza in posizioni di predominio che magari trovano causa in pregresse condotte illecite (l'ex pubblico ufficiale).

Riguardo alla mancata previsione dell'imprescrittibilità del reato di tortura, si segnala che la proposta di legge scongiura decisamente il rischio che reati di tortura si possano prescrivere (anche nei casi in cui conseguano solo lesioni e non la morte); infatti è appena il caso di evidenziare che la pena massima è stabilita in dodici anni di reclusione se il fatto è compiuto da un pubblico ufficiale, ulteriormente aumentata di un terzo o della metà se dal fatto derivano lesioni gravi o gravissime, con conseguenti effetti sul termine di prescrizione che va da un minimo di quindici anni ad un massimo - senza sospensione - di ventidue anni e mezzo. Nel caso in cui il colpevole cagiona volontariamente la morte della vittima, il reato, punito con la pena dell'ergastolo, è comunque imprescrittibile.

Si deve poi tenere presente che la recente legge sul processo penale, approvata il 14 giugno scorso, ha ulteriormente aumentato il termine ordinario di prescrizione, prevedendo che, se interviene la condanna, si verifica la sospensione del decorso della prescrizione per un periodo di un anno e sei mesi, dedicato al processo di appello, e di un ulteriore periodo di un anno e sei mesi, dedicato al processo di cassazione.

Nel parere favorevole espresso dalla Commissione Affari costituzionali sono stati espressi alcuni rilievi sulla formulazione della fattispecie del reato di tortura.

In particolare, rispetto a tale formulazione è stata apposta una condizione e quattro osservazioni (le altre tre osservazioni riguardano altre parti del testo che saranno esaminate successivamente), che possono essere superate senza modificare il testo.

La condizione riguarda la necessità di valutare se la previsione della pena fissa di 30 anni di reclusione, stabilita per la circostanza aggravante, derivante dall'avere provocato come conseguenza non voluta la morte della persona offesa, sia coerente con la giurisprudenza in tema di pene fisse e sia ragionevolmente «proporzionata», per la natura dell'illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, rispetto all'intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico reato di tortura, e ciò tenendo conto della sanzione base – reclusione da quattro a dieci anni – stabilita per il medesimo reato.

A tale proposito si ricorda che la previsione di una pena fissa da parte della legge non è una novità per l'ordinamento. L'articolo 630, secondo comma, del codice penale prevede la reclusione di trenta anni nel caso che dal sequestro derivi come conseguenza non voluta la morte della persona sequestrata. Anche in questa ipotesi ci troviamo innanzi alla morte della vittima, causata da una condotta che ha un'altra finalità rispetto alla morte stessa. La circostanza che la Corte costituzionale non abbia censurato la costituzionalità del secondo comma dell'articolo 630 del codice penale non costituisce una contraddizione rispetto alla giurisprudenza costituzionale richiamata nel parere della Commissione Affari costituzionali, in quanto questa giurisprudenza non considera in re ipsa incostituzionale la previsione legislativa di una pena fissa, ma prospetta il rischio che la pena possa essere irragionevole ed in contrasto con il principio della responsabilità penale personale. In particolare, come evidenziato nel richiamato parere, la Corte costituzionale ha affermato nella sentenza n. 50 del 1980 che «in linea di principio, previsioni sanzionatorie rigide non appaiono pertanto in armonia con il “volto costituzionale” del sistema penale» e che «il dubbio d'illegittimità costituzionale potrà essere, caso per caso, superato a condizione che, per la natura dell'illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, questa ultima appaia ragionevolmente “proporzionata” rispetto all'intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato». La Corte ha infatti precisato che «l'uguaglianza di fronte alla pena viene a significare, in definitiva, “proporzione” della pena rispetto alle “personali” responsabilità ed alle esigenze di risposta che ne conseguano, svolgendo una funzione che è essenzialmente di giustizia e anche di tutela delle posizioni individuali e di limite della potestà punitiva statuale. In questi termini, sussiste di regola l'esigenza di una articolazione legale del sistema sanzionatorio, che renda possibile tale adeguamento individualizzato, “proporzionale”, delle pene inflitte con le sentenze di condanna. Di tale esigenza, appropriati ambiti e criteri per la discrezionalità del giudice costituiscono lo strumento normale».

Nel caso che interessa, occorre quindi verificare se siano soddisfatte le condizioni richieste dalla Corte costituzionale per considerare legittima la previsione di una pena unica. La risposta non può che essere affermativa, come lo è nel caso simile del sequestro di persona. La natura particolarmente e peculiarmente grave della condotta di tortura e la gravità dell'evento (per quanto non voluto) che ne è derivato (morte) sono tali per il legislatore da giustificare una pena fissa che corrisponda al massimo che l'ordinamento prevede per la pena della reclusione (trenta anni). Si ricorda infatti che si prevede l'ergastolo nel caso in cui la morte sia conseguenza voluta della tortura. Inoltre, una pena più bassa (ad esempio, attraverso la previsione anche di una pena minima) sarebbe contraddittoria in relazione alla morte come conseguenza non voluta del sequestro. Per tali ragioni appare opportuno confermare la previsione della pena fissa della reclusione a trenta anni.

La prima osservazione riguarda il requisito della “gravità” e cioè se esso si riferisca alle sole “minacce” oppure anche alle “violenze” e quindi circa l'opportunità di chiarire se la locuzione «violenze o minacce gravi» consenta o meno di riferire la gravità anche alle violenze. La formulazione sembra essere chiara nel senso che il requisito della gravità debba riferirsi alle sole minacce. Del resto un atto di violenza è grave a prescindere e quindi una sua graduazione in termini di gravità apparirebbe davvero complessa soprattutto con riferimento alla nozione di tortura risultante dai diversi atti internazionali sopra richiamati.

La seconda osservazione si riferisce all'opportunità di sopprimere la parola «verificabile», riferita al trauma psicologico, trattandosi di una previsione superflua. Sul punto mi sono soffermato in relazione ai rilievi del Commissario Europeo per i diritti umani del Consiglio d'Europa. A tale punto pertanto faccio riferimento e rinvio.

La terza osservazione è del medesimo tenore del rilievo del Commissario per i diritti umani Consiglio d'Europa in merito alla coesistenza dei requisiti di inumanità e di degrado della dignità umana in relazione al tipo di trattamento nel quale può consistere la tortura. Anche in relazione a questo punto si rinvia a quanto sopra già precisato ed osservato.

La quarta osservazione si riferisce all'opportunità di uniformare le locuzioni utilizzate nel far riferimento agli effetti della condotta criminale, laddove si utilizza una locuzione diversa (“sofferenze”) da quella prevista nell'articolo 1, capoverso articolo 613-bis, primo comma (“sofferenze fisiche e un trauma psichico”). Per quanto sarebbe stata auspicabile una piena corrispondenza tra il primo ed il terzo comma dell'articolo 613-bis, anche in questo caso non appare opportuno modificare il testo poiché una corretta interpretazione (l'interpretazione deve essere costituzionalmente orientata fin quanto la lettera della disposizione lo consente) raggiunge il medesimo ed auspicato obiettivo. Inoltre, si deve tener conto che il terzo comma non fa altro che esplicitare un principio generale dell'ordinamento, che avrebbe trovato applicazione anche in assenza del terzo comma stesso.

Tornando all'articolato, l'articolo 1 aggiunge, poi, al codice penale l'articolo 613-ter con cui si punisce il reato proprio consistente nell'istigazione a commettere tortura commessa dal pubblico ufficiale o dall'incaricato di pubblico servizio, sempre nei confronti di altro pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio. In base all'articolo 414 c.p. chiunque pubblicamente istiga a commettere uno o più reati è punito, per il solo fatto dell'istigazione: con la reclusione da uno a cinque anni, se trattasi di istigazione a commettere delitti; con la reclusione fino a un anno, ovvero con la multa fino a euro 206, se trattasi di istigazione a commettere contravvenzioni (primo comma). Se si tratta di istigazione a commettere uno o più delitti e una o più contravvenzioni, si applica la pena da uno a cinque anni (secondo comma). Alla medesima pena soggiace anche chi pubblicamente fa l'apologia di uno o più delitti. Le pene sono aumentate se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici (terzo comma). Fuori dei casi di cui all'articolo 302, se l'istigazione o l'apologia di cui ai commi precedenti riguarda delitti di terrorismo o crimini contro l'umanità la pena è aumentata della metà. La pena è aumentata fino a due terzi se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici (quarto comma).

La nuova fattispecie introdotta dall'articolo 613-ter non è connotata dalla pubblicità della condotta.

Rispetto al testo-Camera è stato introdotto il riferimento alle modalità concretamente idonee proprie della istigazione alla tortura; è soppressa la clausola di specialità del reato di cui all'articolo 613-ter rispetto all'istigazione a delinquere di cui all'articolo 414 c.p. ("fuori dei casi previsti dall'articolo 414”); è stata ridotta l'entità della sanzione (ora da sei mesi a tre anni, nel testo della Camera era da uno a sei anni).

L'istigazione sarà punibile sia nel caso in cui non sia accolta sia nel caso in cui sia accolta ma ad essa non segua alcun reato. Va, inoltre, segnalato che la rilevanza penale qui conferita all'istigazione pare derivare dal fatto che non si è in presenza di istigazione alla commissione di un generico reato bensì a commettere reato di tortura, che avviene in genere in un contesto caratterizzato dalla presenza di due (o più) pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio.

In relazione alla fattispecie di istigazione, la Commissione Affari costituzionali ha chiesto di chiarire a cosa sia riferito il requisito della concreta idoneità della istigazione alla tortura e di valutare, a seguito della soppressione della sopra richiamata clausola di specialità del reato, il rapporto tra il nuovo articolo 613-ter e l'articolo 414 del codice penale, il quale prevede una sanzione più severa (da uno a cinque anni), oltre che una fattispecie aggravante per l'utilizzazione di strumenti informatici o telematici. A tale proposito si precisa che la diversa gravità dei due reati dipende dalla circostanza che l'istigazione di cui all'articolo 414 è pubblica a differenza di quella punita dall'articolo 613-ter. Proprio per la mancanza del requisito della pubblicità è apparso opportuno rafforzare i requisiti della condotta istigativa dell'articolo 613-ter, prevedendo la concreta idoneità della condotta. Dal diverso ambito applicativo delle due condotte di istigazione (solo per l'articolo 414 deve esservi il requisito della pubblicità) deriva come conseguenza la soppressione della clausola “Fuori dai casi previsti dall'articolo 414”).

Una ulteriore osservazione della Commissione Affari costituzionali richiama l'opportunità di valutare il rapporto tra la nuova disciplina e quella sul concorso materiale di reati o del concorso formale di norme, soprattutto in relazione alle conseguenze sull'entità della sanzione, considerando in particolare se e quando il delitto di tortura possa concorrere con quelli, ad essa connessi, già previsti dal codice (quali ad esempio percosse, minacce, lesioni, violenza privata, ecc.). Pur comprendendo le preoccupazioni sottese a tale condizioni, non si può non rilevare che spetterà al giudice verificare nel caso concreto quali siano le fattispecie penali da applicare, tenendo conto della condotta e dell'offensività del fatto.

L'articolo 2 - identico al testo-Camera - è norma procedurale che novella l'articolo 191 del codice di procedura penale, aggiungendovi un comma 2-bis che introduce il principio dell'inutilizzabilità, nel processo penale, delle dichiarazioni eventualmente ottenute per effetto di tortura. La norma fa eccezione a tale principio solo nel caso in cui tali dichiarazioni vengano utilizzate contro l'autore del fatto e solo al fine di provarne la responsabilità penale.

Il Senato ha soppresso la disposizione del testo trasmesso dalla Camera (già articolo 3) di modifica dell'articolo 157 del codice penale che inseriva anche il delitto di tortura fra i reati per i quali sono raddoppiati i termini di prescrizione.

L'articolo 3 coordina con l'introduzione del resto di tortura l'articolo 19 del TU immigrazione (decreto legislativo n. 286 del 1998), cui è aggiunto un comma 1-bis che vieta le espulsioni, i respingimenti e le estradizioni ogni volta sussistano fondati motivi di ritenere che, nei Paesi nei confronti dei quali queste misure amministrative dovrebbero produrre i loro effetti, la persona rischi di essere sottoposta a tortura. La disposizione – sostanzialmente aderente al contenuto dell'articolo 3 della Convenzione - precisa che tale valutazione tiene conto se nel Paese in questione vi siano violazioni "sistematiche e gravi" dei diritti umani.

Diversamente, il testo-Camera integrava col riferimento alla tortura il contenuto del comma 1 dello stesso articolo 19 TU che, attualmente, prevede il divieto di espulsione e respingimento (manca il riferimento all'estradizione) ogni qualvolta, nei Paesi di provenienza degli stranieri, essi avrebbero potuto essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali. Il comma 1 era integrato dal riferimento al pericolo di tortura della persona oggetto della misura ovvero al rischio di rinvio verso un altro Stato nel quale non sarebbe protetto dalla persecuzione o dalla tortura ovvero da violazioni sistematiche e gravi dei diritti umani.

L'articolo 4 - i cui contenuti sono stati parzialmente riformulati durante l'esame al Senato - esclude il riconoscimento di ogni "forma di immunità" per gli stranieri che siano indagati o siano stati condannati per il delitto di tortura in altro Stato o da un tribunale internazionale (comma 1). Il testo trasmesso al Senato riguardava, negli stessi casi, la sola immunità dalla giurisdizione e faceva espresso riferimento al rispetto del diritto internazionale.

Il comma 2 dell'articolo 4, non modificato dal Senato, prevede l'obbligo di estradizione verso lo Stato richiedente dello straniero indagato o condannato per il reato di tortura; nel caso di procedimento davanti ad un tribunale internazionale, lo straniero è estradato verso il Paese individuato in base alla normativa internazionale.

La Commissione Affari costituzionali ha chiesto infine di esplicitare che le disposizioni in tema di esclusione dall'immunità e di estradizione nei casi di tortura, ivi contenute, siano in ogni caso applicabili nel rispetto del diritto internazionale. In particolare, la Commissione Affari costituzionali ha preso atto che la disposizione richiamata esclude il riconoscimento di ogni "forma di immunità" per gli stranieri che siano indagati o siano stati condannati per il delitto di tortura in altro Stato o da un tribunale internazionale senza più fare espresso riferimento al rispetto del diritto internazionale, come invece era fatto nel testo della Camera. Anche in questo caso non appare opportuno modificare il testo, considerato che la preoccupazione della Commissione Affari costituzionali è risolta dai principi generali e, in particolare, da quanto previsto dagli artt. 10, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione in relazione alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute e agli obblighi internazionali. L'articolo 4, pertanto, non può essere interpretato in contrasto con il diritto internazionale, per quanto esso non sia espressamente richiamato.

Gli articoli 5 e 6 della proposta di legge contengono, rispettivamente, la disposizione di invarianza finanziaria e quella sull'entrata in vigore della legge il giorno stesso della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.

Da troppo tempo si attende che il Parlamento introduca il reato di tortura, questo testo risponde con efficacia e coerenza alle aspettative esistenti. Ulteriori ritardi o nuovi ripensamenti sarebbero difficilmente compresi dal Paese e dalla Comunità Internazionale.