Discussione sulle linee generali
Data: 
Lunedì, 21 Marzo, 2016
Nome: 
Federico Ginato

A.C. 3606-A

 Con questo decreto diamo un nuovo assetto ad un settore, quello del Credito Cooperativo, che da oltre un secolo rappresenta una delle esperienze più interessanti e vitali del nostro mondo bancario. 
Vorrei qui solo ricordare, come già fatto dall'onorevole Sanga, che la prima Cassa Rurale ed Artigiana nasce a Loreggia, in provincia di Padova, nel 1883 ma già alla fine del secolo le Casse rurali saranno 900 per poi raggiungere l'apice di 3.540 nel 1922. 
Sono spesso fondate da parroci, preoccupati di migliorare le condizioni di vita dei propri cittadini e si sviluppano grazie all'opera di migliaia di soci e di tanti piccoli banchieri popolari che anticipano di un secolo figure come quelle di Muhammad Yunus, il banchiere dei poveri fondatore di una delle più interessanti esperienze di microcredito a livello mondiale. 
Le Casse rurali ed Artigiane, infatti, nascono con degli obiettivi solidaristici e mutualistici: per dare credito a chi difficilmente lo otteneva, per combattere l'usura, per unire le risorse di tanti piccoli risparmiatori e utilizzarle per lo sviluppo equilibrato della propria comunità, per modernizzare interi territori che si affacciavano ad un'economia che non era più solamente quella destinata alla mera sussistenza. 
Nell'erogare credito si affidano più sulla conoscenza diretta del socio, sulla reputazione più che sulle solidità delle garanzie. 
Erano forse altri tempi ma si tratta indubbiamente di una grande storia della quale questa riforma cerca di farsi carico recependo molte delle proposte avanzate dalla stessa Federazione nazionale delle Banche di Credito Cooperativo. 
Una riforma che ci restituisce un movimento del credito cooperativo unito. Non era un risultato scontato: nella patria dei mille campanili ogni singola BCC rappresenta indubbiamente delle forti identità territoriali che costituiscono spesso la grandezza del Paese ma che, altrettanto spesso, rischiano di sfociare in localismi deleteri che ne rappresentano anche la debolezza. 
La scelta di uno o più gruppi bancari con la soglia di patrimonio di un miliardo consentirà alle Bcc di poter contare su un forte punto di riferimento a livello centrale che avrà principalmente compiti di indirizzo e controllo. Solo nel caso in cui una singola banca dovesse avere dei problemi, e proporzionalmente alla dimensione di questi problemi, sarà giustificabile un intervento più marcato sul fronte non solo della governance ma anche della messa a disposizione dei capitali eventualmente necessari al mantenimento di una situazione economica di equilibrio. 
L'autonomia delle BCC viene dunque garantita, lo dico all'onorevole Alberti, a condizione che questa vada di pari passo con la garanzia di una sana e prudente gestione. 
Un'autonomia ulteriormente rafforzata dall'approvazione in sede di conversione di un mio emendamento che introduce la possibilità di creare sottogruppi territoriali facenti capo ad una spa bancaria sottoposta a direzione e coordinamento della capogruppo. 
È un'opportunità in più che si mette a disposizione di quelle banche o federazioni di banche che intendono valorizzare esperienze territoriali di condivisione di servizi volte a migliorarne la qualità e a generare importanti economie di scala. 
Chiarito dunque, che questa riforma non è una gabbia costruita per mortificare l'indipendenza delle BCC, credo che sia anche giusto sottolineare la bontà della soluzione raggiunta sulla cosiddetta way out durante il lavoro in Commissione. 
Le possibilità di non aderire al Gruppo Bancario Unico sono chiaramente definite nei modi e nei tempi. I paletti sono stati ben spiegati nell'intervento del relatore. 
Mi limito a sottolineare che con la riformulazione degli emendamenti Ginato e Pelillo viene sancito che il patrimonio costruito con il lavoro di tanti soci e che ha goduto di importanti benefici fiscali rimarrà in ogni caso sotto il controllo cooperativo e solamente la licenza bancaria potrà essere attribuita ad una spa previo il pagamento di una tassa del 20 per cento sul patrimonio. 
La cooperazione bancaria viene dunque ampiamente tutelata da questa riforma. Una cooperazione che non si sostanzia solamente nel permanere del sistema di elezione delle cariche sociali basato «sulla testa, un voto» ma continua a godere di importanti benefici fiscali a fronte dell'obbligo di destinare il 70 per cento degli utili a riserva. 
Obbligo che è all'origine dell'ottimo livello di patrimonializzazione delle BCC e che rappresenta uno dei cardini di un fare banca che non mira e non deve mirare alla massimalizzazione degli utili ma alla massimalizzazione della qualità dei servizi destinati ai propri soci. 
I quali, non acquistano le azioni per ricavarne una remunerazione importante ma per entrare in un sistema solidale che li possa aiutare a cogliere le opportunità di crescita economica e a superare le avversità di congiunture negative come quelle che abbiamo vissuto negli ultimi anni. 
Questo è ciò che distingue le BCC dal resto delle altre banche e ne fa il secondo pilastro del sistema bancario. Va anche detto che le suddette caratteristiche sarebbe stato bene lasciarle, a mio modesto parere, anche in capo alle Banche Popolari che invece sono state oggetto, nel corso dei decenni, di trasformazioni che ne hanno modificato profondamente la natura e sono tra le cause della crisi che alcune di esse stanno vivendo. 
In banche spesso di rilevanza sistemica e con decine di migliaia di soci, i legislatori che ci hanno preceduto si sono illusi di riuscire a mantenere la coesistenza tra un sistema di voto capitario e la massima remunerazione del capitale investito dai soci, il tutto spesso in assenza di una quotazione che determinasse il valore di mercato delle azioni. 
Un ibrido in troppi casi non ha funzionato. 
Tutto ciò ci deve indurre ad una riflessione seria su come tutelare quella che alcuni economisti definiscono la biodiversità bancaria e che è rappresentata, in assenza di una chiara separazione tra banche d'investimento e banche commerciali, dalle specifica identità di banche che hanno funzioni diverse ma che spesso sono positivamente complementari e sussidiarie rispetto al nostro sistema economico. 
In questo senso, dovremmo sforzarci di ragionare su quello che potrebbe essere il terzo pilastro del sistema bancario, cioè quello legato al mondo della finanza etica. Un mondo particolarmente innovativo, capace finora di stabilire modalità originali di erogazione del credito e di impiego di capitali con effetti particolarmente positivi per il nostro tessuto sociale e imprenditoriale. Effetti che andrebbero moltiplicati attraverso politiche di incentivazione fiscale che non devono essere viste come distorsioni del mercato ma come l'apertura di nuove opportunità per costruire quel bene comune che spesso le normali regole di mercato semplicemente non riescono a garantire. 
Questo deve essere un punto importante di un'azione di riforma del sistema finanziario che deve anche garantire una maggiore trasparenza verso i clienti e gli investitori, una vigilanza forte ed indipendente, una chiara individuazione delle responsabilità unitamente ad un meccanismo sanzionatorio che non appaia solo virtuale. Su questi campi alcune cose sono già state fatte ma resta sicuramente la necessità di una visione più complessiva e omogenea che ci dovrà guidare nel lavoro dei prossimi mesi. 

In ogni caso, è bene essere consapevoli che anche una finanza perfettamente regolata e vigilata, con gestione sana e prudente, non è indenne da una crisi che coinvolge l'intera economia reale e facilmente contagia o viene contagiata dal mondo finanziario. È ampiamente noto che i crediti deteriorati e le sofferenze hanno raggiunto livelli non più sostenibili dal nostro sistema bancario. È quindi senz'altro opportuna l'azione del Governo che ha inserito nel decreto legge la possibilità di prestare una garanzia statale sulla cartolarizzazione dei crediti in sofferenza, un'opportunità che speriamo possa essere accolta positivamente dal mercato e che aiuti ad alleggerire il bilancio delle banche italiane migliorando il prezzo di dei crediti che si intendono cedere. 
A questo proposito ricordo anche che esiste una differenza di parecchi punti percentuali tra il valore di carico delle sofferenze nei bilanci bancari e la valutazione che dà il mercato dei potenziali acquirenti. Una forbice di valore, si parla di una cifra attorno ai 40 miliardi di euro, che rischia di trasformarsi in ulteriori perdite e che può essere ridotta attraverso misure finalizzate alla riduzione dei tempi di recupero dei crediti, tempi che attualmente superano abbondantemente i 7 anni e che non possiamo più permetterci. Dati dell'ABI ci dicono che per ogni anno di riduzione la forbice di prezzo potrebbe calare di un 12/13 per cento. 
Su questo tema il Parlamento ed il Governo sono già intervenuti con la riforma delle procedure concorsuali prevista nel decreto-legge n. 83 del 2015 in attesa di una più ampia riforma della legge fallimentare e con il recente decreto legislativo sulle garanzie immobiliari. 
Comprendo perfettamente che si tratti di argomenti molto tecnici ma l'unica alternativa ad una discussione mi merito è quel populismo demagogico che insegue gli umori del momento e che all'inizio della crisi ci accusava di salvare le banche in difficoltà con soldi pubblici ed ora, nell'epoca del bail in, ci chiede addirittura di nazionalizzarle assumendoci le relativi perdite. 
Come Partito democratico non rinunciamo a farci carico anche dei tanti problemi che sono naturalmente collegati ad una svolta epocale com’è la realizzazione dell'unione bancaria europea ma siamo coscienti che solamente in quella dimensione potremo trovare una risposta positivamente duratura alle molte sfide che l'epoca in cui viviamo ci pone.