Discussione generale
Data: 
Lunedì, 22 Settembre, 2025
Nome: 
Paolo Ciani

A.C. 2586

 

Presidente, colleghe e colleghi, rappresentante del Governo, ancora una volta ci troviamo di fronte a un decreto-legge in materia di sanità e ancora una volta il Governo sceglie questa scorciatoia della decretazione d'urgenza, rinunciando a un confronto approfondito su temi che riguardano un diritto fondamentale, come quello della salute. È una prassi, purtroppo, che sta diventando ordinaria, ma che ordinaria non dovrebbe essere, perché se tutto diventa emergenza si smarrisce la capacità di programmare e di governare con lungimiranza e serietà.

L'articolo 1 del decreto si apre con una scelta che non condividiamo e consideriamo sbagliata: il commissariamento dell'Agenas, l'Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali. Dopo le dimissioni del presidente Mantoan, avvenute a dicembre del 2024, sono passati mesi senza che il Governo fosse in grado di proporre una soluzione ordinaria, trasparente e condivisa con le regioni, come la legge avrebbe richiesto. E così, dopo quasi un anno, si è preferita la scorciatoia del commissariamento. Ma commissariare non significa rendere più efficiente, significa ammettere una resa: è la certificazione dell'incapacità di governare la sanità pubblica con strumenti ordinari.

Agenas non è un ente marginale: è il fulcro che valuta l'efficienza dei sistemi sanitari regionali, certifica i target del PNRR Salute, accompagna la riforma territoriale prevista dal “DM 77”, monitora le liste d'attesa e garantisce la tenuta dei livelli essenziali di assistenza. È, per sua natura, un luogo di cooperazione tra Stato e regioni. Commissariarlo, escludendo ogni confronto, significa accentrare potere e indebolire quel rapporto di leale collaborazione che la Costituzione impone.

In Senato erano stati presentati emendamenti per tentare di rafforzare il ruolo delle regioni, per introdurre criteri trasparenti nella nomina del commissario, per prevenire conflitti di interessi e incompatibilità. Ecco, nessuna di queste proposte è stata accolta. Ancora una volta si è scelta la via dell'accentramento, del “decidiamo noi da soli”, ignorando le richieste di apertura e confronto. È un metodo che preoccupa e che rischia di produrre conseguenze gravi sulla tenuta del nostro sistema sanitario.

Intanto i problemi reali della sanità rimangono tutti sul piatto e tanti irrisolti. I dati del PNRR parlano da soli: a dicembre 2024 delle 1.717 case della comunità previste solo il 2,7 per cento era pienamente operativa; degli ospedali di comunità, su 568 programmati appena il 21,8 per cento era attivo; le liste d'attesa si allungano; i pronto soccorso sono al collasso; i concorsi vanno deserti; medici e infermieri lasciano il servizio pubblico e, sempre più spesso, lasciano anche il nostro Paese, l'Italia, per andare altrove. Non è retorica, purtroppo, sono fatti e dietro quei numeri ci sono cittadini che aspettano mesi per una visita, famiglie che rinunciano alle cure, territori che non vedono riconosciuto il diritto all'assistenza.

La questione delle risorse è centrale. La spesa sanitaria in rapporto al PIL è in calo: dal 6,6 del 2022 scenderà al 6,2 entro il 2026, secondo la Ragioneria generale dello Stato. Questo significa che mentre cresce la domanda di cure diminuiscono i fondi per garantirle. Nel 2023 oltre 800.000 famiglie hanno rinunciato a curarsi per motivi economici; non avevano i soldi per una visita, per un esame, per un intervento, e chi non riesce neppure a indebitarsi semplicemente rinuncia alle cure. È una fotografia drammatica in un Paese che si vanta - e ce ne dovremmo vantare tutti, perché è quello che è previsto dalla Costituzione - di avere un servizio sanitario universale, che vede però oggi la condizione economica che torna a determinare chi si cura e chi no. E mentre la sanità si piega, le famiglie si indebitano e i cittadini si spostano dal Sud al Nord per cercare cure adeguate. Le scelte di bilancio purtroppo guardano altrove.

Il Ministro dell'Economia e delle finanze ha ammesso che con l'aumento delle spese militari fino al 5 per cento del PIL sarà difficile trovare risorse aggiuntive per welfare e salute. Allora la domanda è inevitabile: quali priorità si danno come Paese? Se destiniamo miliardi a nuovi armamenti, dove troveremo i fondi per garantire i livelli essenziali di assistenza, per assumere personale, per ridurre le liste d'attesa?

Dentro questo scenario si inserisce un secondo articolo del decreto. Tutt'altro argomento, quello che riguarda il Bambino Gesù. Parliamo del più grande ospedale pediatrico d'Europa: una struttura che cura bambini da tutta Italia e da tutto il mondo, senza reparti solventi, senza differenze, con la sola logica del bisogno di cura. Un'eccellenza che incarna i valori più profondi del nostro Servizio sanitario nazionale. Sostenere il Bambino Gesù è giusto e doveroso perché, non essendo legato a una regione, non può contare sui canali ordinari di finanziamento. Ma anche qui non mancano le criticità. Si parla di un fondo fino a 20 milioni di euro, cioè una cifra non certa ma solo potenziale. È un segnale evidente della scarsità di risorse disponibili per il Fondo sanitario nazionale. Se le cifre non vengono definite e allocate con chiarezza, il rischio che quelle risorse vengano assorbite da altre voci di spesa è concreto. E intanto, dentro l'ospedale, il contratto del personale è scaduto da quasi 8 anni: due tornate contrattuali perdute, centinaia di professionisti che ogni giorno lavorano in condizioni di grande impegno senza un adeguato riconoscimento. E quanti giovani formati in Italia, con competenze straordinarie, scelgono poi di andare all'estero, proprio perché qui non vedono garantito il loro futuro? Ecco, il nodo non è solo quello di sostenere un singolo ospedale, per quanto fondamentale, ma di chiedere più risorse e più visione per l'intero sistema sanitario nazionale. Non possiamo permettere che il Bambino Gesù diventi un'unica isola felice in un mare di difficoltà, mentre attorno famiglie intere rinunciano a curarsi e territori rimangono scoperti.

Difendere la sanità pubblica significa garantire risorse certe, investire sul personale, ridurre le disuguaglianze territoriali e tutelare ogni cittadino senza che il codice postale o la condizione economica decidano chi riceve cure e chi no, chi le riceva migliori e chi no, perché la salute non è un favore che il Governo di turno concede ai cittadini, non è un lusso per chi se lo può permettere. La salute è un diritto costituzionale, un diritto che oggi rischia, purtroppo, di essere tradito. Ed è questo il punto politico che non possiamo ignorare. Senza una svolta vera, senza la capacità di affrontare i nodi strutturali della sanità continueremo ad assistere a rinuncia alle cure, a viaggi della speranza, a un sistema che si piega sotto il peso delle disuguaglianze.

Noi non ci rassegniamo a questa deriva. Continueremo a chiedere più risorse, più coraggio e più visione, perché il Servizio sanitario nazionale non è un capitolo di spesa tra gli altri o come gli altri, ma la condizione per rendere reale l'uguaglianza tra tutti i cittadini.