Discussione generale
Data: 
Lunedì, 27 Ottobre, 2025
Nome: 
Valentina Ghio

A.C. 2662

 

Grazie, Presidente. C'è un filo, anche sentendo la relatrice, un filo conduttore che attraversa questo decreto e che purtroppo a nostro avviso attraversa anche l'intero operato di questo Governo in materia di scuola: l'idea che si possa cambiare il sistema educativo come si corregge un bilancio, a colpi di decreti, con la fretta di chi deve mettere a posto qualcosa invece di mettere le basi per percorsi condivisi, per percorsi duraturi. Ogni anno un nuovo testo, un nuovo regolamento, una nuova riforma d'urgenza, quasi come se la scuola fosse un cantiere permanente. La scuola ha anche bisogno di stabilità, ha bisogno di tempo e ha bisogno di ascolto, quello che anche in questo caso, in questa occasione non c'è stato.

Questo decreto, questo DDL nasce sotto l'etichetta rassicurante del “regolare avvio dell'anno scolastico”, però dentro ci sono scelte, troviamo scelte che cambiano in profondità l'identità della scuola italiana. Non c'è solo la questione dell'esame di Stato, ma c'è un'idea complessiva di una scuola che arretra, che rinuncia al suo compito pubblico, che preferisce uniformare invece che emancipare. Parto dal punto più evidente, l'esame di Stato finale. Si cambia nome, si cambia struttura, i criteri, ma notiamo l'assenza di una visione pedagogica dietro. Togliere la parola “Stato” non è un gesto neutro, è un messaggio politico. Le parole non sono mai semplici strumenti, le parole costruiscono significati e talvolta, quando si cambiano, si imprimono dei cambiamenti profondi anche ai processi. Sostituire “Esame di Stato” con “Esame di maturità” non è a nostro avviso un dettaglio linguistico, è un cambio di prospettiva.

Significa trasformare una prova pubblica, che certifica conoscenze e competenze riconosciute dalla Repubblica, più in una valutazione individuale che fa quasi riferimento al profilo psicologico della persona, che tenta di misurare con il righello la persona, invece che approfondire a 360 gradi la valutazione del percorso fatto.

E così si arretra rispetto alla dimensione collettiva, alla dimensione nazionale dell'esame, quella che assicura a tutti gli studenti, in qualunque parte dell'Italia si trovino, lo stesso diritto, lo stesso valore del giudizio al termine del percorso scolastico. L'esame di Stato deve restare, anche nei nomi, un atto pubblico, perché è un momento in cui la comunità educante incontra lo Stato e lo Stato si fa garante dell'equità del percorso formativo; non è un giudizio sulla maturità di ciascuno, perché la maturità delle persone non la si valuta in un'aula.

E poi, dietro questa scelta simbolica, c'è anche una verità più prosaica - siamo alle solite, mi verrebbe da dire -: c'è, ancora una volta, la logica del risparmio. Il Governo riduce i commissari esterni da 3 a 2, prevede una commissione ogni due classi e parla di semplificazione, ma, in realtà, come è stato certificato dallo stesso servizio del bilancio, si tratta di un taglio da quasi 30 milioni di euro e quindi - diciamolo con chiarezza - non è una misura pedagogica, ma questa è una misura contabile.

Ciò che colpisce di più è anche la filosofia che traspare tra le righe. Si parla tanto di competenze, ma si torna di più alla scuola delle prove, alla scuola dei test; si parla del merito, ma si riducono gli strumenti per garantire equità, per mettere a disposizione tutti gli strumenti necessari per raggiungere obiettivi comuni, anche partendo da condizioni di accesso molto diverse. Peraltro, che ancora una volta vogliate risparmiare sulla scuola pubblica lo si vede anche con chiarezza dalla prossima legge di bilancio, dove, ancora una volta, l'istruzione viene trattata come un costo, non come un investimento essenziale per il futuro, con tagli da 600 milioni di euro nel prossimo triennio: meno fondi per l'edilizia scolastica; abolizione dell'organico triennale, trasformato in organico annuale; più incertezza per studenti e famiglie e non ci sono interventi sostanziali contro il caro scuola.

Ma torniamo al punto. Mentre da una parte il Governo ripete di voler valorizzare i percorsi degli studenti, peraltro senza la volontà vera di ascoltarli, poiché nelle audizioni sono stati ascoltati grazie alle richieste portate avanti dalla minoranza, aumenta il peso delle prove Invalsi, che sono in modo chiaro trasformate in vere e proprie prove di certificazione individuale, ed è un corto circuito questo: prove nate per valutare il sistema vengono usate per giudicare i singoli. Così la scuola riduce, dal nostro punto di vista, la sua funzione educativa e diventa, sempre di più, una macchina di selezione. Se l'Invalsi diventa il metro prevalente di valore, ecco che ancora una volta si abdica un po' a quel ruolo di garante della qualità, dell'equità dell'istruzione. Si delega ad un algoritmo quando ci dovrebbe essere, invece, un atto educativo, un atto complesso e umano.

Poi viene trattata la cosiddetta filiera formativa tecnologico-professionale, con il giusto e condivisibile obiettivo - dichiarato - di avvicinare la scuola al lavoro. Ma, nella pratica, così come è stato impostato, si rischia di piegare soltanto la scuola alle esigenze immediate del mercato, frammentando ulteriormente l'offerta formativa, marginalizzando la cultura generale, restringendo ancora di più quel ruolo della scuola come fulcro di quella comunità educante di cui parlavamo prima, che dovrebbe porsi l'obiettivo di realizzare una società migliore, naturalmente per competenze - per accrescere le competenze, certamente -, ma anche per benessere, per equità sociale, per diritto alla felicità, per giustizia.

Che cosa diventa la scuola, se non è parte integrante di questo percorso e se rimane segmentata, rivolta a parametri meramente settoriali, numerici? È giusto che i percorsi professionali siano valorizzati, ma devono far parte di un sistema integrato, non di una corsia parallela gestita in modo verticistico. Infatti, con questo decreto, basta una proposta del dirigente scolastico, un via libera ministeriale, per attivare nuovi indirizzi, senza il parere obbligatorio degli organi collegiali. Così si indebolisce fortemente, ulteriormente, la partecipazione democratica della scuola. Viene spacciato per autonomia quello che, in realtà, è un puro accentramento e, anche qui, si vede una tendenza più ampia, che si è manifestata diverse volte in questi anni, ovvero ridurre gli spazi di confronto, limitare la collegialità, verticalizzare le decisioni.

È la stessa logica che guida un po' l'intero provvedimento: governare la scuola dall'alto. Eppure la scuola pubblica italiana non è cresciuta grazie ai decreti; è cresciuta, soprattutto, grazie alla valorizzazione delle persone che la compongono, grazie alla volontà di partecipazione democratica di studenti e studentesse, grazie ai docenti che tengono insieme le classi nonostante i tagli, ai dirigenti che fanno miracoli, spesso, per garantire il diritto allo studio, al personale che regge edifici spesso fatiscenti. Non ci sono risposte concrete per loro in questo decreto: non c'è un investimento strutturale, una stabilizzazione vera, una valorizzazione economica profonda, ma proroghe, transizioni infinite, precarietà normalizzata.

Lo abbiamo detto più volte, ma lo ripetiamo anche in questo contesto: non si può chiedere qualità senza garantire dignità. Questo è dimostrato - devo dire che su questo siete coerenti - anche nel Piano sperimentale welfare del Ministro Valditara, rivolto a dirigenti scolastici, docenti, personale amministrativo, tecnico e ausiliario della scuola, che offre una serie di benefit e sconti su trasporti, sport, acquisti alimentari e altro. Ancora una volta si risponde ad un problema reale, ad un problema urgente, ovvero i salari, con un pannicello caldo, evitando ancora una volta di intervenire in modo strutturale sul contratto nazionale.

I benefit sono concessioni discrezionali, non sono un diritto: sono un omaggio revocabile. Un aumento del salario, invece, da contratto, è strutturale e ha effetti moltiplicativi, duraturi, sulla vita delle persone. Sta tutto qui l'approccio che portate avanti, la concezione che avete della scuola. Offrire benefit al posto di uno stipendio più alto è il vostro modo di continuare ad eludere una questione di fondo, che sarebbe il mettere in campo azioni di sostegno contrattuale - e quindi strutturale - che vogliono dire riconoscere ai docenti il ruolo e la dignità che gli spettano. State andando in tutt'altra direzione. Un sistema educativo fondato sulla precarietà del personale è destinato ad essere precario nella sua struttura, nei risultati.

Colpisce anche il silenzio del Governo rispetto alle proteste di alcuni studenti proprio sul tema dell'esame di Stato: studenti che avevano scelto di esprimere il loro disagio in modo simbolico, con il silenzio durante gli esami orali. Ora io non voglio dire che questo sia un gesto necessariamente condivisibile - non sto dicendo questo -, ma sicuramente so che era un gesto che chiedeva ascolto. Invece è arrivata solo una risposta punitiva, burocratica, disciplinare, come se la partecipazione fosse, ancora una volta, un fastidio. Ma una scuola che si rifiuta, che non ascolta i propri studenti, è una scuola che ha smarrito la propria missione.

Dentro questo decreto ci sono alcune piccole norme, qualche misura utile - penso ad esempio alla sicurezza dei trasporti per i viaggi di istruzione e ai, seppur limitati, fondi per l'edilizia scolastica -, ma non c'è nulla che delinei un'idea di futuro della nostra scuola. È un testo difensivo, scritto per gestire l'esistente in modo burocratico, non per migliorarlo. Eppure la scuola, la nostra scuola, avrebbe bisogno di tutt'altro: di una visione, di un piano pluriennale di investimenti, di stabilità normativa, di fiducia nel corpo docente, di reale riconoscimento del loro lavoro, di sostegno alla partecipazione delle comunità scolastiche.

Noi, invece, ogni anno ricominciamo da capo, come se la scuola fosse un esperimento continuo. Ed è per questo che la nostra opposizione è netta a questo provvedimento, non per pregiudizio, ma per rispetto della scuola pubblica, che merita riforme vere, non operazioni di maquillage e azioni punitive, e merita risorse stabili, non risparmi mascherati da innovazione, e perché la scuola non è un servizio fra gli altri. La scuola è la radice della nostra Repubblica: è il luogo dove si costruisce la cittadinanza, dove si impara a pensare, dove si sperimenta la libertà.

Ogni volta che la riduciamo soltanto ad un problema amministrativo, priviamo la scuola di un pezzo della sua anima. Invece dovremmo sostenere percorsi per una scuola che non solo misuri le persone, ma le formi. Don Lorenzo Milani lasciava sulla parete della scuola di Barbiana parole semplici e rivoluzionarie: I care, mi sta a cuore. Questo significava e significa, ancora oggi, assumersi la responsabilità, non voltarsi dall'altra parte, chiedere e credere che ogni ragazzo e ragazza abbiano diritto ad essere visti, ascoltati, accompagnati.

Quella scuola era povera di mezzi, ma era ricca di senso: nasceva per dare voce agli ultimi e per ricordarci che la scuola deve essere anche il luogo dove si colma la distanza tra chi ha tutto e chi parte con meno. E proprio per questo oggi non può essere governata con la logica del risparmio o della semplificazione burocratica, del verticismo punitivo, ma deve essere trattata con la logica della cura, dell'equità, della partecipazione.

Questo decreto va nella direzione opposta, poiché qui si disegna una scuola che semplifica e punisce: si accentra e si decide dall'alto senza ascoltare ragazze, ragazzi e docenti che fanno la scuola, ed è a loro - ai ragazzi, alle ragazze e ai docenti che ogni giorno tengono viva la comunità educativa - che dobbiamo rispondere non con tagli, non con slogan, ma con l'ascolto e con la volontà concreta di sostenere la scuola pubblica.