Dichiarazione di voto
Data: 
Mercoledì, 30 Novembre, 2022
Nome: 
Andrea Orlando

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Grazie, signor Presidente. Colleghi parlamentari, io credo che vada detto subito qual è il nostro intento: noi riteniamo che sia urgente inserire nel nostro sistema di regolazione del mercato del lavoro un salario minimo legale. Il lavoro povero era già prima del COVID una piaga grave.

Il Ministero del Lavoro sul 2019 aveva registrato che il 12 per cento dei lavoratori italiani stava sotto la soglia di povertà; durante l'emergenza, durante questi anni di emergenza, le misure molto criticate messe in campo sia dal Governo Conte-bis sia dal Governo Draghi hanno mantenuto questo livello che naturalmente non è accettabile di per sé, ma comunque ha fatto da argine rispetto alla crescita potenziale del lavoro povero; oggi, siamo di nuovo in un passaggio nel quale non soltanto non si vede, nonostante la ripresa economica, una regressione del fenomeno, ma c'è il rischio di un ulteriore allargamento dell'area, perché, come spiegano gli economisti, l'inflazione è una tassa particolarmente iniqua, perché colpisce nello stesso modo chi ha di più e chi ha di meno e, quindi, fa più male a chi ha di meno, un po' come la flat tax, ma questa inflazione, per la sua composizione, accentua ulteriormente questo carattere. L'Istat, nel bollettino di ottobre, ci ha ricordato come le fasce più basse di collocazione per reddito delle famiglie hanno visto crescere il costo reale dell'energia del 16 per cento, mentre le fasce più abbienti hanno avuto una crescita soltanto dell'8,5 per cento.

Quindi, si prospetta uno scenario nel quale una risposta sul fronte del lavoro povero diventa urgente, soprattutto se voi doveste andare avanti con lo sciagurato intento di cancellare il reddito di cittadinanza, perché qualunque cosa si possa pensare di questo strumento, ci sono già due interazioni che oggi incidono sul lavoro povero. La prima è data dal fatto che già oggi il reddito di cittadinanza funziona come elemento di integrazione del reddito per molti lavoratori. In questi tre anni, tra il 15 e il 20 per cento dei percettori del reddito di cittadinanza erano persone regolarmente assunte. Il secondo aspetto è che il reddito di cittadinanza, come qualunque reddito base, costituisce un elemento di concorrenza e di stimolo alla crescita dei salari soprattutto nelle fasce più basse. Togliere il reddito di cittadinanza, oggettivamente - su questo settore, sul resto potremo parlarne -, peggiorerà ulteriormente la situazione e naturalmente “lavoro povero” significa, in futuro, “previdenza povera”.

Allora, prima che i sagaci colleghi di Fratelli d'Italia, che hanno posto la domanda nella discussione generale, reiterino la domanda: ma perché se questa cosa è così grave non l'avete fatta? Devo ringraziare la collega Nisini, che era la mia sottosegretaria, perché ha spiegato molto bene perché non siamo intervenuti su questo terreno. Io penso che, tuttavia, sia giusto rivendicare che nonostante le divisioni abbiamo cercato di percorrere tutte le strade possibili per dare una risposta sul fronte del lavoro povero. Lo abbiamo fatto con la normativa di settore, introducendo nel codice degli appalti una norma che prevede che per i lavoratori del subappalto debba essere applicato lo stesso contratto dell'impresa che ha vinto la gara; lo abbiamo fatto a livello europeo, sostenendo la direttiva per il salario minimo e schierando l'Italia tra i Paesi più convinti in questa direzione e siamo lieti che, oggi, anche il Governo in carica lo apprezzi; e lo abbiamo fatto con l'unica strada percorribile, il sentiero, direi molto stretto, della possibilità della costruzione di un accordo tra le parti sociali, l'unica strada in quel quadro politico, cioè quella di costruire un'ipotesi, che è crollata con la caduta del Governo, di legare i trattamenti salariali di ogni comparto al trattamento economico complessivo. Certo, era un primo passo, ha ragione il collega Aiello, ci sono molti contratti leader che sono al di sotto dell'accettabilità, ma quello avrebbe voluto dire almeno mettere fuori gioco i contratti pirata e avrebbe voluto dire aprire la strada a una normativa per la regolazione della rappresentanza.

Le cose sono andate come sono andate, il Governo è caduto e ora c'è un quadro politico completamente nuovo. Questo quadro politico, di un Governo che rivendica la sua natura politica, dovrebbe in qualche modo far sì che si esplicitasse in “sì” o in “no”: vogliamo il salario minimo o non lo vogliamo? Io non credo che sia accettabile un “boh”. Perché, oggi, la risposta che ci dà il Governo, cioè sostanzialmente che applicheremo la direttiva, sapendo che la direttiva non è cogente, sapendo che la direttiva nel nostro Paese non obbliga all'introduzione di un salario minimo, è come dire semplicemente: vediamo.

Ma “vediamo” rispetto a un fenomeno i cui tempi non sono dettati dalla direttiva, ma dalle condizioni materiali del Paese. E devo dire che ho ascoltato con grande piacere la vivissima preoccupazione che molti colleghi della destra hanno manifestato per il rischio di indebolire la contrattazione, l'esaltazione del ruolo del sindacato; devo dire che non credo ci siano precedenti nella storia di questo Parlamento nell'esaltazione di tale ruolo (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico-Italia Democratica e Progressista), però, al di là di chi la solleva, è una preoccupazione oggettivamente fondata alla quale merita dare una risposta. La risposta deve partire da due domande; la prima è questa: la contrattazione, oggi, ha lo stesso grado di pervasività e di omogeneità che aveva in passato? Gli studi ci dicono di no, perché il lavoro povero si addensa di più nel Sud, nelle piccole imprese, nei servizi, cioè dove il sindacato si è indebolito, dove il lavoro si è precarizzato di più, dove è più forte il nero e la mancata risposta a queste divaricazioni è una delle cause dei divari territoriali che segnano il nostro Paese.

La seconda questione, la seconda domanda è: la contrattazione è ancora in grado di portare verso l'alto i salari, come è avvenuto per un lungo ciclo del nostro Paese? E la risposta, anche qui, se guardiamo agli ultimi 30 anni, purtroppo è “no”. La contrattazione, da sola, non spinge verso l'alto i salari, tant'è vero che in Italia i salari sono fermi da trent'anni.

È bene tagliare il cuneo fiscale, benissimo, ma il taglio del cuneo fiscale, di per sé, non rimette in moto una dinamica tendenziale. La Francia e la Germania hanno una pressione sul lavoro più forte della nostra, ma nel corso di questi anni hanno visto crescere i salari dei loro lavoratori del 30 per cento. Noi abbiamo tagliato il cuneo fiscale in diverse occasioni, ma questo non ha messo in moto una ripresa dei salari. Si dice che in quei Paesi c'è una produttività più forte. Non è vero neanche questo; nel nostro Paese, la produttività in trent'anni è salita del 6 per cento, ma i salari sono scesi del 3 per cento. Allora, c'è qualcosa anche nella contrattazione che deve essere rivisto, cioè, solo con la contrattazione non si invertono delle tendenze, senza la contrattazione - su questo siamo d'accordo - le condizioni generali dei lavoratori, perché il contratto non è solo salario, rischiano di andare indietro. Allora, cosa vogliamo noi? Vogliamo una legge che non contrapponga il salario minimo alla contrattazione, che faccia derivare i minimi dalla migliore contrattazione per ogni settore, ma che fissi per tutti un salario, una quota oraria sotto la quale non si può lavorare. È stato detto: è uno specchietto per le allodole il salario minimo. Io non vorrei che questa affermazione suoni in qualche modo collegata alla ricetta che il Governo sta mettendo in campo con la manovra, cioè ad un messaggio che dice: lasciamo stare il PNRR, lasciamo stare l'innovazione, lasciamo stare le politiche industriali e torniamo all'antico. L'antico qual è? Un po' meno fedeltà fiscale e non vi rompiamo le scatole sui salari. Guardate che se questa è la strada, che è stata già percorsa in questo Paese, questa strada è criminale, perché mentre si organizzano le catene del valore, mentre c'è una guerra commerciale tra la Cina e gli Stati Uniti, mentre si mette in questione la filiera degli approvvigionamenti, dire al nostro Paese e alle nostre imprese: anziché saltare l'asticella, passateci sotto, è un modo per far sì che un modello basato su bassi salari e bassa produttività sia spazzato via dalla competizione internazionale.

 Ecco, perché - concludo, Presidente - noi riteniamo che la scelta di introdurre un salario minimo non sia soltanto una scelta di equità, ma una scelta per individuare un altro modello di competizione del nostro Paese, una scelta per costruire un'idea dello sviluppo che non sia basata sulla contrazione del costo del lavoro e sull'infedeltà fiscale. Questa scelta è una scelta che può riqualificare il nostro sistema economico. Lo voglio dire con molta franchezza, mi hanno stupito molto le dichiarazioni del Ministro del merito e della scuola, o della scuola e del merito, non ho capito bene, che pensa di poter fondare un nuovo modello pedagogico, utilizzando la categoria dell'umiliazione. Ora, io dico questo: noi non soltanto non vogliamo che l'umiliazione entri nella scuola, vogliamo che esca anche dal mondo del lavoro.

Per queste ragioni, noi riteniamo che un salario minimo che rispetti la contrattazione, che faccia i conti con la tradizione italiana sia la risposta anche per riqualificare complessivamente un'idea dello sviluppo nel nostro Paese. Per questo - lo dico con grande serenità a tutti i colleghi delle opposizioni -, noi non ci mettiamo a piantare le bandierine, non facciamo a gara su chi ha presentato prima i disegni di legge: votiamo tutti gli ordini del giorno che sostengono l'esigenza dell'introduzione di un salario minimo , perché il fronte deve essere il più largo possibile, qui, nella società italiana, con le forze sociali, con quella parte del sindacato che riconosce l'esigenza del salario minimo. Le forze non sono mai abbastanza per una battaglia che è cruciale per il futuro del nostro Paese e per il lavoro.