Grazie, Presidente. Nelle ceneri di Gramsci, davanti a quella tomba presso il cimitero acattolico di Testaccio, Pasolini ammette il contrasto tra l'attrazione quasi carnale per il mondo contadino e la razionale spinta per il progresso e per la lotta per emancipare quel mondo dalla condizione di schiavitù secolare. Oggi, nel tempo obbligato di uno sviluppo che sembra essersi separato dal progresso, il suo tormento ci appare profetico e nel ricordarlo qui, in quest'Aula, a cinquant'anni dalla morte, non possiamo dimenticare che il Parlamento, come ha ben documentato Lanfranco Palazzolo in un recente libro, si occupò di Pasolini numerose volte ma come un tribunale davanti a un imputato, con interrogazioni, ordini del giorno e quant'altro. In pochi lo difesero.
Pasolini non è classificabile con la sua irripetibile contraddittorietà e con la sua ricerca di scandalosità etica. Forse per questo è una figura che viene tirata per la camicia un po' da tutti. Favorevole al divorzio ma contrario all'aborto; con i celerini della polizia e contro gli studenti del 68, eppure dichiaratamente marxista, comunista e antifascista fino all'ultimo; un antifascismo che nasceva dal corpo come chiarì con durezza nell'ultimo film di Salò.
La sua morte resta un mistero italiano ma con dentro una certezza: fu ucciso da un gruppo di persone e non da Pelosi. Morto a cavallo tra il giorno dei Santi e il giorno dei morti, là dove le acque del Tevere si mischiano a quelle del Tirreno. Uno spazio-tempo misto, contraddittorio, quasi a simboleggiare una vita intera e un destino.
Roma lo catturò. Amò le sue borgate, la religiosità di quel popolo ancora in parte rurale, ancora scollato dalla pastosa dittatura materiale e morale del neocapitalismo post bellico, fino a quando lui, disperato, non si accorse che anche in quel popolo, tra quei ragazzi in quelle borgate zellose e limpide di una luce ancora non riflessa, stava per arrivare l'imperio delle mode livellatrici, compattatrici, della pubblicità, della televisione, del linguaggio e dei gesti della scatola magica.
Allora, cominciò profeticamente a guardare all'Africa, all'India, alle case ordite di fango e mattoni di San'a nello Yemen, prevedendo l'arrivo delle navi di immigrati dal sud del mondo.
In una società ancora sessista, omofobica, maschilista, i suoi racconti e le sue poesie, le sue pellicole, messe continuamente sotto censura, avevano però un sorprendente successo tra il pubblico, a conferma che lo scandalo era in primo luogo la repressione del potere politico e clericale di allora.
Ed oggi, chi da destra lo accarezza dovrebbe in primo luogo ricordarsi di questo: Pasolini aveva ben chiara la lezione poetica novecentesca della poetica dell'oggetto e la rafforzava, possibilmente estremizzandola. Egli cercava di far parlare i volti e le cose, non di raccontarli. Fissandoli nei film con inquadrature pittoriche grazie alla formidabile fotografia di Antonio Delli Colli, facendone emergere il sacro attraverso la musica classica. Usava il linguaggio poetico come il linguaggio della realtà, come diceva Heidegger. E di poeti come Pasolini ne nasce uno o due in un secolo, disse Alberto Moravia al suo funerale.
Tranne eccezioni non fu amato dalla dirigenza del PCI che preferiva il racconto di un mondo proletario e sulla traccia del pensiero di Marx guardava con sospetto al sottoproletariato.
Ecco dunque - ho concluso, signor Presidente - che il suo ricordo dopo cinquant'anni si presta a molteplici riflessioni, la principale delle quali però riguarda lo scandalo dell'oggi, il dominio assoluto, quasi immorale dell'innovazione. Non si esiste se non si è nuovi e il nuovo sganciato dalla tradizione uccide il presente, uccide la vita che è relazione di tempi. Il suo scandalo di allora è lo scandalo di oggi di tutti noi.