A.C. 1917-B
Onorevoli colleghi, anche se - devo dire - l'ora è tarda, non possiamo non portare avanti quello che riteniamo sia davvero un provvedimento sbagliato. “Nel processo giudici e avvocati sono come specchi; ciascuno, guardando in faccia l'interlocutore, riconosce e saluta, rispecchiata in lui, la propria dignità”. Non lo dico naturalmente io, ma così parlava Piero Calamandrei nel 1952, ricordando che la fiducia tra gli operatori del diritto nasce anche dalla comune appartenenza a un'unica cultura giurisdizionale. E aggiungeva: l'avvocato si fida dei giudici, perché ieri furono avvocati come lui e il magistrato si fida dell'avvocato, perché sa che domani salirà anche lui, dalla sbarra del difensore, al banco del giudice. E, quindi, cosa succede? Queste parole sono davvero più attuali che mai, perché questa cosiddetta controriforma costituzionale quel gioco di specchi lo frantuma.
Oggi siamo chiamati a discutere questa proposta: una proposta che presentate come riforma della giustizia, ma che è in realtà una controriforma ideologica, punitiva e pericolosa per l'equilibrio democratico del nostro Paese. La separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, che volete introdurre, non nasce da un'esigenza di efficienza o di garanzia del giusto processo, ma da un intento chiaro e inequivocabile: indebolire l'autonomia e l'indipendenza della magistratura sotto la bandiera di un cambiamento tanto inutile quanto dannoso. Anche perché dobbiamo chiarire un punto fondamentale. Lo hanno chiarito più colleghi in quest'Aula, però sembra non sortire effetto. Lo ribadiamo: nel nostro ordinamento la distinzione tra le funzioni giudicanti e quelle requirenti esiste già. La riforma Cartabia, votata anche da molte forze oggi proprio sedute in questa maggioranza - non questa sera, perché non ci sono, però, insomma, ci sono -, ha introdotto limiti stringenti alla mobilità tra i due ruoli: un solo passaggio consentito in tutta la carriera entro i primi 9 anni. I numeri quindi sono davvero chiari: meno dell'1 per cento dei magistrati effettua questo passaggio ogni anno. Quindi parlare di commistione è un falso problema; è un falso problema costruito per legittimare una riforma che nulla ha a che fare con la realtà. Mi chiedo: è davvero necessario stravolgere la nostra Carta costituzionale per impedire questi 20 passaggi l'anno? Ripeto: forse è meglio iniziare a sgombrare il campo delle favole e raccontare la verità agli italiani. Questa controriforma del Governo Meloni è soltanto un feticcio ideologico, è fuori tempo massimo ed è da porre sul tavolo della contrattazione tra le componenti di questa destra di Governo, con la Lega che pretende l'autonomia differenziata, Fratelli d'Italia che sbandierava il presidenzialismo, ma si accontenterebbe anche del premierato, e Forza Italia che ormai ha una fissa da trent'anni con la separazione della carriera dei magistrati. Anche se, a dire il vero, non di separazione delle carriere si tratta, ma di qualcosa di diverso e più profondo. Infatti, per separare le carriere mantenendo un unico ordine giudiziario non serve affatto una modifica costituzionale. La Corte costituzionale è stata chiarissima sul punto. Nella sentenza n. 37 del 2000 ha precisato che la Costituzione, pur considerando la magistratura come unico ordine, soggetto ai poteri dell'unico Consiglio superiore, non contiene alcun principio che imponga o, al contrario, precluda la configurazione di una carriera unica o di carriere separate fra i magistrati addetti rispettivamente alle funzioni giudicanti e a quelle requirenti, o che impedisca di limitare o di condizionare, più o meno severamente, il passaggio dello stesso magistrato nel corso della sua carriera dalle une alle altre funzioni.
In altri termini, la separazione delle carriere in senso proprio, con la previsione di concorsi differenziati, di una progressione ispirata a criteri e a valutazioni diverse e l'impossibilità di transitare da un ruolo a un altro, non trova alcun limite nella Carta costituzionale e potrebbe essere decisamente, come hanno detto più colleghi, essere realizzata anche attraverso una legge ordinaria, purché rimanga un unico ordine e un unico Consiglio superiore. Invece questa controriforma, pur proclamando l'unitarietà dell'ordine giudiziario, lo divide in due magistrature, quella requirente e quella giudicante, che saranno governate da due CSM differenti.
Al di là delle proclamazioni di principio, l'ordine unico, anche se permanesse tale, ne risulterebbe sicuramente indebolito, perché in natura, come nelle istituzioni, la divisione di un organismo unitario ne determina generalmente il ridimensionamento. Pertanto risulta chiaro che tale controriforma persegua non la separazione delle carriere, ma la separazione delle magistrature. È altrettanto vero che nel nostro modello processuale il pubblico ministero e il giudice sono già distinti in modo chiaro e netto sul piano funzionale. Questa diversificazione delle funzioni non richiede in alcun modo una differenziazione quindi anche sul versante ordinamentale. Allora è davvero facile cogliere l'intendimento punitivo del Governo: si procede alla separazione delle magistrature perché si vuole colpire la magistratura, che, per Costituzione, è autonoma e indipendente e non è responsabile dell'attuazione politica del programma della maggioranza di turno. Anche l'introduzione del sorteggio per la nomina dei componenti di ciascuno dei due Consigli superiori, con l'estrazione a sorte, per un terzo, da un elenco di professori e avvocati compilato dal Parlamento in seduta comune e, per i restanti due terzi, rispettivamente tra i magistrati giudicanti e i magistrati requirenti, in realtà, appalesa proprio ulteriormente lo spirito punitivo della controriforma, che punta a delegittimare l'autonomia e la credibilità della magistratura e a colpire il fenomeno associativo giudiziario, che è un diritto garantito costituzionalmente, facendo apertamente intendere che il secco fato darebbe risultati migliori della libera e autonoma scelta dei magistrati.
Ma allora potremmo andare avanti, andare avanti anche perché la separazione potrebbe costituire anche una maggiore distanza tra pubblico ministero e giudice, perché nessun condizionamento deriva dalla pura stretta colleganza tra i giudici: stesso concorso, stessa carriera, stesso CSM. Ma i giudici d'appello non si fanno scrupoli a riformare le sentenze dei loro colleghi di primo grado. Discorso simile può essere fatto per i rapporti tra i pubblici ministeri e giudici. La percentuale di assoluzioni pronunciata in primo grado lo conferma: nel 2019 il 50 per cento delle pronunce del tribunale monocratico è stato dato da proscioglimenti, di cui il 39 per cento di assoluzioni nel merito; nel collegio i proscioglimenti invece sono stati il 35 per cento. Anche qui nessun condizionamento derivante dalla colleganza tra appartenenti alla stessa magistratura: stesso concorso, stessa carriera, stesso CSM. I giudici si discostano dal posizionamento del pubblico ministero e assolvono più di quanto condannano.
Detto questo, solo per non ripetere tutto ciò che è già stato detto in quest'Aula, allora noi dobbiamo porci una domanda, necessaria, forse un po' scomoda: ma qual è l'obiettivo di questa riforma? Separare le carriere, e peggio ancora forse le magistrature, significa snaturare la figura del pubblico ministero, trasformandolo da organo di giustizia a mero accusatore professionale, autoreferenziale, isolato dalla cultura giurisdizionale, più facilmente esposto alle pressioni mediatiche e politiche. Questo è il pericolo. È quello che avviene anche in molti altri ordinamenti europei, dove accade che si separano le carriere e, non a caso, i pubblici ministeri poi dipendono dall'Esecutivo. Credo - mi sembra evidente - che la strada che si vuole imboccare qui sia la stessa: indebolire l'obbligatorietà dell'azione penale, aprire la porta alla discrezionalità politica sulle indagini, decidere quali reati perseguire e quali ignorare. Insomma il controllo del potere.
Signori, non è questa, colleghi, la giustizia che noi vogliamo; non è questa la giustizia che ci è stata consegnata.