A.C. 2590
Grazie, signor Presidente. Signor Sottosegretario, collega relatore, colleghi e colleghe, ciò che discutiamo oggi non è un adempimento tecnico ma una scelta che tocca la coscienza giuridica dello Stato: la ratifica di un Trattato di trasferimento dei detenuti con un Paese che non può essere considerato sicuro per i diritti fondamentali (stiamo parlando della Libia). E tutto questo è attestato da atti, da rapporti, da una giurisprudenza che vengono richiamati in questa stessa sede.
Per questo, già preannuncio, ma lo faremo anche in dichiarazione di voto e nel prosieguo dell'esame di questo provvedimento, la nostra ferma contrarietà, come gruppo parlamentare del Partito Democratico, alla ratifica di questo Trattato, il Trattato sul trasferimento delle persone condannate a pene privative della libertà personale, tra la Repubblica italiana e lo Stato della Libia, fatto a Palermo il 29 settembre 2023.
Il testo del Trattato riprende in astratto - e sottolineo questo termine: in astratto - finalità, che potrebbero essere condivisibili, di cooperazione e di reinserimento, ma la validità delle clausole dipende dal contesto di garanzie effettive nello Stato di esecuzione. E, se quel contesto è carente, le stesse clausole diventano, addirittura, un moltiplicatore di rischio per la persona e per lo stesso Stato che trasferisce.
La documentazione parlamentare e internazionale acquisita certifica, infatti, un quadro di detenzioni arbitrarie, di torture, di tratta di persone, di violenze sessuali e di collusioni tra apparati e milizie. Tutto ciò esclude la Libia dal novero dei Paesi sicuri ai fini di protezione e custodia della libertà personale. E la recente giurisprudenza ha ribadito che la Libia non è un porto sicuro, e che le riconsegne collettive sono illegittime.
La stessa Corte di cassazione, con sentenza n. 4557 del 2024 sul caso Asso28, ha qualificato come illegittimo lo sbarco in Libia di persone soccorse in acque internazionali, mentre la Corte europea dei diritti dell'uomo, pur dichiarando irricevibile il ricorso, ha richiamato l'inidoneità della Libia quale luogo di sbarco e protezione.
Lo stesso principio di “non respingimento” di rango convenzionale viene richiamato come inderogabile, mentre i dati dell'Organizzazione internazionale per le migrazioni attestano, da anni ormai, l'altissimo tasso di morti, di dispersi, nonché le intercettazioni con ritorno forzato in Libia della cosiddetta guardia costiera anche con supporti europei.
Andando al merito di questo Trattato, vediamo che lo stesso presenta delle criticità strutturali.
L'articolo 4 elenca condizioni solo apparentemente garantistiche (cittadinanza, sentenza definitiva, doppia incriminazione, consenso), ma la loro effettività svanisce se lo stato di esecuzione non assicura quegli standard minimi verificabili e rimedi effettivi. Ancora più delicati gli articoli 16 e 17, che consentono trasferimenti senza il consenso dei diretti interessati, rispettivamente per fuga dallo Stato di Condanna ed espulsione o misure equivalenti, senza un filtro terzo e indipendente sulla condizione detentiva o sul rischio di trattamenti inumani o degradanti.
Anche la disciplina dell'esecuzione, all'articolo 12, lascia ampi margini allo Stato di Esecuzione, ivi compresa l'adeguazione della pena con il solo consenso dell'altro Stato, in assenza di meccanismi esterni di monitoraggio che garantiscano che natura e durata non si traducano in regimi contrari ai diritti fondamentali.
Le clausole su riservatezza e dati personali, agli articoli 20 e 21, non integrati da trasparenza e audit, rischiano di opacizzare ulteriormente le informazioni su trattamento e custodia dopo il trasferimento, proprio dove massima dovrebbe invece essere la tracciabilità.
Non è irrilevante, inoltre, che il Trattato abbia durata illimitata; è un recesso efficace solo dopo 180 giorni, quello di cui all'articolo 25, vincolando il nostro Paese, l'Italia, nel lungo periodo, con un sistema istituzionale frammentato e penetrato dalle milizie, con evidenti asimmetrie di affidabilità e di enforcement. Non è chiaro con chi stiamo facendo questo accordo, con quale Libia. E qui non pesa il costo di bilancio indicato nella relazione tecnica, ma il costo giuridico, il costo umano, reputazionale, derivante dall'assumere obblighi operativi che non si riescono a governare nel rispetto della Costituzione, della Corte europea dei diritti dell'uomo e del diritto internazionale.
Guardate, la coerenza politica ci impone di ricordare che lo stesso Memorandum del 2017, all'articolo 5, subordina l'applicazione e l'interpretazione al rispetto dei diritti umani, condizione che la documentazione parlamentare e i rapporti delle Nazioni Unite hanno ritenuto insussistente, invocando la cessazione di ogni supporto che continui ad alimentare violazioni sistemiche. Se quel presupposto è venuto meno, non è accettabile rafforzare canali che, con trasferimenti, opacità informativa e senza consenso, espongono persone a rischi non controllabili, in violazione del principio di non-respingimento e della dignità umana.
A questo punto, credo che valga ricordare la lezione di Cesare Beccaria: “È meglio prevenire i delitti, che punirli,” ammoniva nel capitolo Come si prevengono i delitti, indicando nella razionalità delle istituzioni il vero fondamento della sicurezza comune, non nella severità cieca della pena.
Se il fine dichiarato è il reinserimento sociale - lo diceva il mio collega relatore -, allora la via non può essere quella di affidare persone a sistemi che i rischi li moltiplicano, perché questo tradisce proprio l'obiettivo preventivo e rieducativo dello ius puniendi, che secondo Beccaria dovesse restare ancorato a ragione, proporzione e umanità.
Il primato della persona non è quindi solo un assioma morale, ma un criterio giuridico. La formula dell'umanità di Kant: “Agisci in modo da trattare sempre l'umanità, così nella tua persona come nella persona di ogni altro, sempre come un fine, e mai come un mezzo” richiama il dovere dello Stato di non utilizzare la persona come strumento di obiettivi di controllo o deterrenza, specialmente quando il contesto di destinazione è lesivo della dignità. Un trasferimento privo di consenso o di garanzie effettive riduce la persona a mezzo, violando quel canone che ispira la stessa architettura dei diritti fondamentali delle carte europee e della nostra Costituzione, come ampiamente richiamato negli atti parlamentari in tema di Libia.
Alla politica, invece, spetterebbe misurarsi con l'etica della responsabilità, di cui parlava Max Weber, che valuta gli atti per le loro conseguenze reali e non per la sola purezza delle intenzioni, senza mai contrapporla all'etica della convinzione, ma cercandone una difficile composizione nell'azione pubblica. E se le conseguenze prevedibili sono l'esposizione a trattamenti inumani e l'impossibilità di controlli indipendenti, l'etica della responsabilità impone di fermarsi, perché “il raggiungimento di fini buoni è accompagnato il più delle volte dall'uso di mezzi sospetti” e, in politica, chi ignora questo - diceva Max Weber - è un fanciullo.
Dal punto di vista strettamente giuridico, e mi avvio alla conclusione di questo mio intervento, il consenso del condannato è cruciale, ma non sufficiente. L'articolo 9 demanda la verifica allo Stato di Condanna, con l'eventuale verifica da parte di un funzionario dello Stato di Esecuzione, senza un terzo indipendente, senza presidi contro le pressioni, dirette o indirette, tipiche di contesti permeati dalle milizie, come è il caso della Libia. Laddove poi il consenso manca, gli articoli 16 e 17 consentono comunque il trasferimento per fuga o per espulsione, aggravando il rischio di trattamenti contrari all'articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, in assenza di garanzie effettive di monitoraggio e di rimedi giurisdizionali praticabili.
Poi ricordiamo che c'è anche un profilo di sicurezza e di sovranità. La vicenda Almasri, di cui ampiamente abbiamo trattato in quest'Aula - una vicenda che definirei imbarazzante, grottesca, se non inquietante o, addirittura, raccapricciante -, ha mostrato l'opacità e la fragilità dei circuiti decisionali con le autorità libiche, segnalando come la cooperazione possa tradursi in condizionamento reciproco e in perdita di controllo pubblico sull'esito ultimo delle persone coinvolte.
Legarsi oggi a un Trattato percepibile come semplice consegna di persone a sistemi assolutamente inaffidabili significherebbe cedere porzioni di sovranità giurisdizionale a poteri non responsabili, anzi irresponsabili, e indebolire la fiducia dei cittadini nella capacità dello Stato di coniugare giustizia e diritti. Allora, la nostra - del nostro gruppo parlamentare - assoluta e motivata contrarietà a questo Trattato si fonda su tre pilastri: le violazioni sistemiche dei diritti umani accertate in Libia, le lacune del Trattato nelle garanzie, specie per i trasferimenti senza consenso, e l'incoerenza con gli obblighi costituzionali e convenzionali, che non possono essere mai superati in via bilaterale. Cooperare in materia penale è giusto solo se sussistono standard comparabili, verificabili e giustiziabili di tutela, e qui queste condizioni mancano del tutto; lo stesso Trattato, per come è scritto, né le crea e né le prevede.
Signor Presidente, signor Sottosegretario, e concludo davvero, sono convinto che dobbiamo avere il coraggio di fare scelte realistiche e solide sul piano del diritto, che restituiscano alla politica la responsabilità dei risultati, senza mai sacrificare la dignità umana e la legalità internazionale.
Voglio ricordare, in conclusione, che la cooperazione giudiziaria internazionale è uno strumento prezioso quando presuppone Stati affidabili e garanzie effettive, ma diventa rischioso quando sostituisce le garanzie con la fiducia cieca e la trasparenza con la riservatezza non controllata, come gli stessi articoli 20 e 21 del Trattato suggeriscono.
Per questi motivi, chiederemo a quest'Aula di respingere con decisione la ratifica e al Governo chiederemo di reindirizzare la cooperazione con la Libia alla sola tutela dei diritti umani, al superamento dei centri di detenzione - e di tortura, aggiungo - e all'evacuazione delle persone vulnerabili, perché il Mediterraneo possa finalmente smettere di essere un cimitero e la giustizia italiana non diventi mai più un ponte verso l'abuso.