Discussione generale
Data: 
Lunedì, 8 Maggio, 2023
Nome: 
Maria Cecilia Guerra

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Grazie, Presidente. L'istituto “opzione donna”, di cui parliamo oggi, non è certamente un'opzione meravigliosa, un'agevolazione fantastica per le donne, né tanto meno un'agevolazione gratuita. È un'opzione quasi da disperazione: è l'unica forma di possibilità di uscita anticipata di cui le donne dispongono ma è molto penalizzante, perché, come veniva ricordato, comporta il ricalcolo contributivo dell'intera carriera lavorativa e, quindi, porta a un taglio delle già magre pensioni del 25-30 per cento.

Nonostante questo, ha una caratteristica prima di tutto: ha resistito nel corso del tempo. È nata nel 2004 e, appunto, nonostante questi suoi limiti, era ancora viva sino al 2022. Ha resistito persino alla riforma Fornero - è la sua forza - proprio perché rispondeva al principio contributivo e, quindi, non era e non è un elemento di generosità.

Perché allora esisteva questa opzione (devo dire “esisteva”, perché l'intervento del Governo l'ha macellata, l'ha ridotta a una cosa che non si può neppure chiamare “opzione donna”)? Esisteva perché c'era un bisogno. Infatti, rispondeva a un bisogno e anche a un'esigenza, se vogliamo, di giustizia, cioè la consapevolezza che le donne sul mercato del lavoro sono fortemente penalizzate, con carriere discontinue e retribuzioni più basse, e lo sono, proprio in quanto donne, per motivi molto diversi, fra cui l'impegno che svolgono nel lavoro di cura delle persone più fragili all'interno delle famiglie e nel lavoro domestico.

Se andiamo a vedere le caratteristiche delle donne che hanno avuto accesso a “opzione donna”, che, ricordo, non è una cosa clamorosa e riguarda soltanto il 2 per cento dei pensionamenti delle donne (quindi, non stiamo parlando di uno strumento abusato), se guardiamo alle caratteristiche che ci ritornano dall'ultimo rapporto dell'INPS, dicevo, vediamo che la scelta di “opzione donna” è legata a una maggiore fragilità, cioè a una fragilità nella fragilità. Chi sono le persone che anticipano la pensione? Sono persone - sono donne - che spesso fanno fatica a maturare settimane di lavoro (secondo l'indagine dell'INPS, 10 settimane in media in meno di chi anticipa rispetto a chi non anticipa).

Sono persone che più spesso devono ricorrere a contribuzioni figurative e a riscatti per cercare di accelerare il raggiungimento del requisito contributivo. Un requisito contributivo che, pur essendo quasi un traguardo irraggiungibile per moltissime donne, 35 anni, è più basso di quello richiesto in altri istituti. L'altra cosa su cui vorrei richiamare la vostra attenzione è che la propensione a esercitare l'opzione è decrescente al crescere del reddito, ed è proprio una differenza molto forte. Cioè sono le donne più povere, che non hanno aspettativa comunque di arrivare, se ci arrivano, a una pensione elevata, e che comunque sono schiacciate dalla difficoltà di arrivare a maturare questo requisito, che accedono più facilmente a questa opzione.

Quindi è un'opzione che ha proprio la caratteristica di essere un'ancora di salvezza. È più forte, ci dice sempre la relazione dell'INPS, l'incidenza di lavoratrici silenti, cioè lavoratrici che nell'ultimo anno precedente al ricorso all'opzione erano senza versamenti contributivi. Quindi il reddito basso, la difficoltà lavorativa è la determinante più significativa della scelta di “opzione donna”. Questa cosa, evidentemente, è stata considerata di privilegio, perché è stata attaccata anche in altri momenti storici e molto brutalmente da questo Governo. Ricordo, quando parlo di altri momenti storici, quello che avvenne nel 2012, quando, con un'interpretazione molto contestata anche in queste Aule, le circolari INPS n. 35 e n. 37 del 2012 hanno collocato la finestra mobile, l'aspettativa di vita nel periodo di maturazione del requisito, riducendo quindi nei fatti la sperimentazione, che doveva terminare, all'epoca, nel 2015, che veniva quindi anticipata nel 2014, togliendo 15-21 mesi per la possibilità di accedere a questa opzione.

Ma l'attacco che viene svolto questa volta è molto più pesante. È un attacco che formalmente mantiene un istituto, ma in realtà lo svuota completamente dall'interno, e lo fa imponendo dei requisiti particolarmente stringenti. Secondo la relazione tecnica, la platea dovrebbe ridursi a circa e sole 3.000 donne. I dati che abbiamo fino adesso ci dicono un'adesione quasi inesistente, sotto 20 le richieste arrivate nel 2023, quindi siamo di fronte, appunto, a un istituto che è stato fondamentalmente abrogato. È stato fatto, però, anche con dei messaggi che vanno comunque contestati, al di là del loro effetto.

La cosa che ci ha più colpito riguarda il fatto che, a fronte di un innalzamento del requisito di anzianità a 60 anni, è stato comunque fatto uno sconto, un anno per ogni figlio. Questa è una cosa veramente che crea un precedente molto serio e molto discutibile. Nessuno ha mai chiesto che l'avere avuto figli sia un elemento che deve modificare il requisito di accesso. La nostra battaglia, che in parte ha dato risultati, è quella invece di dire che il lavoro di cura è a tutti gli effetti equiparabile, seppure eventualmente con una contribuzione figurativa più contenuta, a un anno di lavoro, perché è lavoro che deve essere socialmente riconosciuto.

Non c'è una premialità, per giunta ex post, quindi senza nessuna valenza di incentivo, che debba essere riconosciuta perché è più brava una donna che ha fatto figli rispetto a un'altra. C'è invece la necessità di riconoscere appieno nella carriera lavorativa anche questo lavoro, che è lavoro di cura, che ha un valore sociale e che come tale chiediamo che sia riconosciuto. Questa modalità di guardare al tema famiglie e figli in questi modi strampalati, improvvisati, parcellizzati, non ci va bene. Non ci va bene neanche nell'ultimo decreto Lavoro, quando, per sostenere le famiglie con figli, si inventa un fringe benefit che non è una politica; è deciso dai datori di lavoro, solo dai datori di lavoro che si possono permettere di dare molti soldi, fino a 3.000 euro, ai propri dipendenti, quindi solo a certe categorie di dipendenti, con una detassazione.

Queste sono misure assolutamente sbagliate, anche culturalmente, che noi combattiamo. Gli altri requisiti che sono introdotti peggiorano persino rispetto anche a quelli che sono già previsti, ad esempio nell'Ape sociale. Quindi non basta essere licenziate, bisogna anche essere licenziate da un'impresa che sia in un tavolo di crisi. Insomma, questa continua categorizzazione per arrivare a segmenti sempre più piccoli, discriminare, non ci va nell'approccio delle politiche sociali, e “opzione donna”, quindi, è un banco di prova, esattamente forte, di quello che non dovrebbe essere fatto. Fra l'altro, e chiudo, una discriminazione che è stata richiamata anche dalla Ministra Calderone, poi inoperosa nel rimediare: è evidente che questa opzione è rilevante anche per le lavoratrici autonome, che vi ricorrono in percentuale superiore rispetto alla media, eppure non si riconosce neppure la loro fragilità e si lascia una discriminazione per età che anche noi saremmo disposti a superare.